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23/12/13




Il cielo è sceso sotto le luminarie
che toccano ogni via
confuse nella storia degli uomini
mischiate alle vicende della speranza.
Ho raccolto parole per la strada
che sapevano d'inverno
ho disegnato cuori che parlassero
a tutti i volti della paura.
E adesso che è calata la notte
vedo solo luci che si ripetono
e ascolto voci che raccontano
il Natale di questo breve anno.

(E.L.)

11/12/13



Levate in alto le chiome
dei pini nel blu di dicembre

04/12/13

Su "London", l'ultima mostra di Stefano Taffoni





Non sono mai stata a Londra, ricordo “Penny Lane” dei Beatles e “…there beneath the blue suburban skies”, che è un verso di quella meravigliosa canzone, e potrebbe fare da colonna sonora a queste foto, dove appaiono cieli suburbani accanto a panoramiche della City e i personaggi in mostra evocano bene uno humour che è lo stesso che si sente nella canzone… Vengono fuori “visti per il ricordo”, in un florilegio che ripercorre uno sguardo carico di stupore, per cui si va tra mirabilia e minimalia nel “mood “ di questa città, grandiosa in una sorta di voluta “sproporzione” ottica con chi la ritrae e ce la comunica come gli è apparsa, come se lo sguardo fotografico coincidesse con la prima impressione che hanno registrato gli occhi: effetto non facile da ottenere.

Questo tipo di ricerca, per cui vale e calza il motto picassiano “Io non cerco, trovo” manca felicemente di ogni intenzionalità letteraria, e si concede così in una veloce leggerezza che suggerisce, e oltre che documentare, ha il grande pregio di divertire, di comunicare entusiasmo.

E’ così che le immagini si accalorano di luci che attraversano gli “interni” e tinte squillanti di “fenomeni” registrati nelle strade e colti al volo, come le orchestrine ambulanti, il sorriso di una bambina che vende piccoli dolci in un vassoio, all’aria aperta, “a pretty nurse is selling poppies from a tray” (da Penny Lane, ancora), i capelli rossi in un fiocco di un’altra bimba che avviano tutto un frizzante caleidoscopio, che è un altro dei portavoce di questo “taccuino di viaggio”, singolare chat con una città, con le luci delle sue vetrate, le sue cattedrali nel deserto che riescono ad apparirci senza drammi, i suoi salti di prospettiva giostrati come piccoli zoom. Perfino un ricordo delle Olimpiadi 2012 risolto in un affollarsi di facce, di fans che guardano tutti nella stessa direzione, col naso all’aria: una vignetta, un tocco Zen.


Enrica Loggi

07/11/13



Polvere d'oro in cuore a novembre
fascine di malinconia
su per i colli di viti in catena
lungo le strade dove finisce il sole
e il tuo cuore come un ospite mi chiede
di fargli posto tra i cuscini.

( E.L. )


09/10/13

“Noli me tangere”: Giuseppe Biguzzi alla Galleria Marconi





Se dovessi dare un nome alla modella che ha posato per i quadri in mostra a Cupramarittima fino al 19 ottobre, faticherei non poco, vista la discrezione delle pose in cui è ritratta; a testa bassa, come un fiore tortile, rannicchiata a proteggere una sua femminilità uscita da poco dall’adolescenza e affacciata a una vita forse solo d’immagine, fiorita un giorno solamente, per dirla con De Andrè, tanto provvisorio e labile mi sembra il suo apparire, sulla scena della tela, chiusa da un unico segno nero che ne intaglia tutto il corpo e lo sospende aldilà del luogo e del tempo.

Lo sfondo è piatto e d’un solo tono perlaceo, ripetuto ogni volta, siglato nel suo silenzio incorporeo, come una pagina dove si legge il presente di questa preziosa silhouette senza passato, negli abiti che cambiano colore come i suoi giorni di “spleen”, e descrivono le pose di un corpo che si ritrae, diresti che si nega, rivelandosi per un incarnato straordinariamente vivo e quasi dolente, morso da una luce che sembra accendere la pallida figura dal di dentro, come una lampada antropomorfa, animata da un estenuato soffio vitale, prossima ad essere l’astrazione di se stessa: personaggio, fabula vivente un suo crepuscolo precoce, femminilità che contesta, che si mostra in negativo, volgendosi altrove, chiamando uno spettatore ignoto, lontano o forse inesistente.

Così, il dato figurativo, che chiama Gustav Klimt, o forse più ancora la controversa femminilità dei quadri di Egon Schiele, sfocia nell’astrazione per via di una concettualità dominante, e la figura che di tela in tela ci viene mostrata ha la simbolicità di una carta da gioco: effetto magico conseguito dall’artista Giuseppe Biguzzi schiacciando le prospettive, cancellando gli sfondi e rendendo straordinariamente contemporanea questa bionda creatura che non si fa toccare, che si mostra addirittura di schiena, come l’opposto di una Paolina Borghese d’altri tempi: a travestirla, un soffio d’ironia dolorosa.

Una pittura (bentornata in un mondo di fotografie) che conosce la sua strada passando attraverso l’eco della didascalia, quando non del fumetto, salva per la cura mimetica dei particolari, per l’impostazione narrativa che si fa ben accogliere nel nostro presente di flashes, di black-out , di colpi di scena.

Enrica Loggi

25/09/13

Monteprandone, domenica 22 Settembre, piazzetta IV novembre.



Avviene che nella minuscola piazza antistante lo Studio dell’Artista Nazareno Luciani, verso le diciassette e trenta compaiano: una panchina trasportabile, un tavolo con sopra una allegra copertura gialla e una sontuosa sedia di plastica bianca, un altro tavolo ricoperto di stoffa a ghirigori viola e tre personaggi di scena: una poetessa, un pittore, un altro pittore fabbricante di lampade e, riconoscibile dalla flemma e dalla parrucchetta bianca, Nazareno Luciani in persona. Lo spaziomOHOc  aperto, come una madia contenente l’indispensabile dell’Arte: quadri in ogni dove, dalle tinte soffuse, molti ospitanti il piccolo quadrupede di nome OHO, mite ed esultante, un angelo a quattro zampe. Silenzio nella piazza, cielo sereno, balconi lustri, una piccola via d’imbocco che subito transita verso un tranquillo dove. Quadri appesi alle case racchiudono il luogo che si carica di colore sfumante in una densa poesia. Tutto è pronto per l’imprevisto. Piccolo rendez-vous di spettatori che osservano i pittori armeggiare con tinte sgocciolanti sulle lampade in fieri, la poetessa che s’è seduta al tavolo giallo e parla come in sogno, lungamente, del suo libro “…A una rima di vento”. Appare un suonatore di chitarra che dà vita a un suono che si ripete, si ripete. Appare un altro pittore. La piazza è un largo, un campiello, un contesto un po’ faceto e un po’ severo. L’Arte è il racconto che vi s’intreccia, e si scioglie col crepuscolo: voci affiochite dalla sera, un po’ di fata morgana nel cuore.

P.S. I pittori:  Vincenzo Lopardo, Antonello Pala ed Emilio Patalocchi
      Il musicista: Davide
      La poetessa: Enrica Loggi

03/09/13

Una sera d'Agosto. Reading alle Cantine Cameli (Grottammare - Valtesino)





Enrica e Antonella Roncarolo 


Piergiorgio Cinì


Lorenzo Evangelisti 

*

La pioggia fruscia come un uccello sul parabrezza
la strada che costeggia il fiume ha la bellezza
delle acacie efebiche fiorite a maggio
giù lungo gli argini dove incontri
la serpe d’acqua che scansa le pietre
e non raggiunge il mare, pigra
nella pianura selvatica
sola  sotto la sferza della pioggia
come di un’altra vita, un’eco
di compagnie trascorse, di bivacchi
sotto il cielo schiarito e tiepido
di un maggio clamoroso
tempestato da rondini baccanti.
E  sulla terra grigia gli amici,
i solitari, gli amanti
vivono questa musica.
Tra gli argini che il cuore non sa mettere
si va barcamenando di ciascuno
l’innocenza e l’angoscia, come il fiore
votato a seminarsi nei pensieri,
cancellarsi in una nuova acqua che scorre.


Enrica (da ...A una rima di vento)


19/07/13

Marco Fulvi: “Icone 2013”. La mostra al Palazzo Pretorio di San Sepolcro (Firenze). Dal 20 al 28 luglio.


La scelta del ritratto è un esercizio amoroso, nel talento della conoscenza.
Nel caso di Marco Fulvi è l’immergersi nella storia, vista nel suo momento irripetibile, di chi passa con noi sulla scena del mondo, compagno di strada, amico, conoscente o sconosciuto la cui immagine è stata intercettata nel respiro della sua esistenza.
Marco dipinge visi come corolle tratteggiate al millesimo, basta guardare la foggia dei capelli, la curva del mento, il lago degli occhi. Un’infinita attenzione. Il desiderio di essere parte della sagoma umana che gli sta davanti, o di riconoscerla nei tratti comuni: un sopracciglio, l’arco delle labbra, l’orecchio, in una meditazione che si fa attimo e corpo, presente che sfuma nell’istante successivo, nel quadro magicamente coevi.
Ricreare la vita partendo da un’immagine è un dono che ogni volta qui scaturisce, e tratteggiare le linee perché l’immagine sia propriamente quella, non un centimetro più piccola, non un sfumatura di colore in più, è una forma di amore silenzioso per la “figura” e per la pittura in sé, che qui si fa idioma, si dirama in storia, si va approfondendo, sfacendosi nei tratti minimi, esagerandosi nella fissità, come in un dato comune consegnato ogni volta a una memoria millimetrata, che è il tramite per un microcosmo ordinatissimo che siamo chiamati a “riconoscere”, a incontrare.
Immerso nell’unico colore dello sfondo, il volto prende corpo e luce dalla fisiognomica ogni volta inedita, per cui abbiamo il piacere di ritrovare magari un amico assorto nella sua posa incontrovertibile, in unicità con se stesso tanto da diventare icona della sua storia, contemporaneo a chi guarda per lo scroscio dei capelli o il tratto della veste, captato in un sorriso che quasi lo trascende, lo “strania”, oppure in un suo silenzio perplesso, dove forse si disegnano gli ultimi momenti prima che la posa si realizzi, e dall’atmosfera d’insieme scocchi il richiamo felice che ci induce a sostare lungamente, in una domanda che sa già d’amicizia.

http://www.marcofulvi.it/icone-2013.html


Enrica Loggi

12/06/13


veglia di nuvole


07/05/13


Prima del mare
tra due tamerici
il piccolo prato spontaneo.
Corolle bianche e minuscole
bocche viola tra fili d'erba alta.
Vi ho lasciato i miei occhi a riposare
la mia testa vi ho abbandonato
e tutto quello
che in me fiorisce e si sporge
vi ho seminato.

(E.L.)

14/04/13

Galleria Opus di Grottammare: incontro letterario con Maria Lenti


Un pomeriggio di grande interesse e intensa partecipazione, ieri, alla presentazione dell’ultimo libro di Maria Lenti “Effetto giorno”, Ediland Edizioni, San Benedetto del Tronto, 2012.
La poetessa e scrittrice urbinate è stata introdotta dal poeta e critico Giarmando Dimarti, il quale, con la sua consueta abilità interpretativa, ha individuato nella “speranza” l’imperativo categorico sotteso alla raccolta e nel neoumanesimo, nella tensione morale, nella vocazionalità all’altro, il carattere degli scritti lentiani, che spaziano dalla politica alla letteratura, alla scuola, al cinema (da cui il titolo che richiama il titolo italiano de La nuit américaine di Francois Truffaut).
“Le parole chiave del libro – ha precisato Dimarti – sono: libertà, ascolto, coraggio, tolleranza, dialogo, transizione.
Un libro, in sintesi, appassionato di chiarezza e verità, che trascende l’odierno impasse esistenziale e ci esorta all’agire senza alcuna riserva, perché noi siamo unicità relate e come tali necessariamente sussidiarie”.
Maria Lenti, dal suo canto, si è soffermata a lungo sul “senso del ricominciare”:
“Una cosa che è molto mia è il senso del ricominciare, tenendo conto della libertà di ciascuno, ma anche del dialogo con l’altro, dell’ascolto con l’altro: una vocazionalità allo stare insieme, che è fondamento della politica. Fare politica è per me anche scrivere, insegnare, anche senza parlare dei partiti o della politica, perché è la considerazione della “polis”, cioè di quello in cui noi siamo immersi, che è la società, la città, il contesto. Stare insieme per riuscire a capire – insieme – da che parte si possa ricominciare.
Ricominciare tenendo conto di quello che noi abbiamo come esperienza e di quello che non abbiamo più e che non tornerà.
Quale possibilità abbiamo? O star dietro a ciò che non è più – e quindi non fare nulla – oppure dire, forti di un bagaglio personale, collettivo, storico, culturale, e basandosi sulle nostre intelligenze, sulle nostre possibilità: ricominciamo da un punto!”


L’incontro con Maria ci trasmette così il senso del non chiudersi al mondo, del dar vita ogni volta al mondo e alle cose del mondo.
Avevamo bisogno del contatto con questa voce importante della letteratura contemporanea, per ricordare a noi stessi che la poesia è “fare pensiero”, trasformare “i solchi in ponti, con il dialogo” e la cultura è “capacità di leggere il mondo”, parole appassionate di Maria Lenti, che abbiamo sentito particolarmente viva e vicina, nella ricchezza del suo affabulare che è sempre un “fare il punto”, accamparsi come voce nella difformità culturale dei nostri tempi.

Enrica Loggi


06/04/13

Il nuovo libro fotografico di Rita Vitali Rosati


“La passiflora non è una passeggiata en plein air”

Questo il titolo, tra dramma e ironia, del nuovo libro fotografico di Rita Vitali Rosati ( Vanilla Edizioni, Marzo 2013 ). Oltre ad essere un saggio delle facoltà dell’immagine, viste nel loro ricco ventaglio, questo libro è un omaggio alla poesia.

Le fotografie di Rita, legate al tema del fiore come metafora dell’esistenza, vita e arte congiunte, bellezza che si attarda fino alla voce del decadimento, si alternano fino all’ultima pagina a descrivere le passioni, l’umana nostalgia simbolica di ciò che il fiore stesso, dopo un breve trionfo di colori e di effervescenze, percorre fino al limitare della sua fine. Ma è una morte dolce come quella che vediamo nelle “passioni” del Rinascimento, un commento non compiaciuto ma disteso a raccontare le fibrillazioni della vita nei drammi della sua fatiscenza e con un istinto che è quello della contemplazione fino a un borderline di misericordia.

Immagini di spose che reggono immote bouquets floreali sull’orlo del disfacimento, eppure portatrici instancabili del demone della bellezza. “Fanciulle in fiore” colte nell’abbandono alle sirene del proprio destino. Braccia bendate che reggono tulipani come bandiere. Corolle che occhieggiano, sfacendosi come parole di commiato. Sono, queste sequenze, un assonare fitto, orchestrato, coi versi poetici che l’Autrice ha amorosamente raccolto, proponendo agli autori delle poesie i suoi temi.

Ed ecco voci come quelle di Eugenio De Signoribus, Alessandro Moscè, Franco Loi, Francesco Scarabicchi, Maria Lenti, Anna Buoninsegni, Paolo Ruffilli, Gianni D’Elia, Maria Grazia Maiorino, Remo Pagnanelli, Guido Garufi, Nicola Monti, Natalia Thacyk, Bianca Varela, Enrica Loggi, pronunciarsi su questo suo canovaccio variegato e tremulo, appassionante ed evocativo, descritto magistralmente da Paolo Nardon nella prefazione, e commentato alla fine dall’inconfondibile Guido Garufi.

Il libro è un coro di rimandi iconografici e parole che sembrano altrettanti steli e corolle, tentativi di spiegarsi di fronte all’ineffabile, e così di diventare fioriture lungo la strada, germogli delle stagioni, silenzi di paesaggi, assenze, meditazioni della vita specchianti la morte come un floreale passaggio in un quadro di dolcezza.

Le poesie, quindici in tutto, trovano una veste grafica inedita, mista di colori e pause del tutto nuove nei caratteri di stampa, entrando a far parte del fasto delle immagini che invadono la pagina ampia, distesa in una specie di esuberante ospitalità all’eco delle parole.

Rita Vitali Rosati ha portato anche in questa, che è un’opera, le sue tematiche che investono di classicità la sua proverbiale e nota ironia. Questa volta ha voluto sorprenderci con un lavoro generoso che non solo raccoglie l’orfanezza del dire poetico ma lo lancia in una prospettiva di eloquenza, di visibilità coinvolgente, assoluta.

La poesia deve molto a questa maestra della Fotografia, alla sua arte che ha diviso con le parole dei poeti, da lei vagheggiate da sempre, nella passione che si esprime e vince la mortalità del dire.

Enrica Loggi


02/04/13

"Il tempo della poesia" di Michela Solimando


C’è chi del tempo ne fa oro e chi, invece, poesia.

"…A una rima di vento" versifica un sentimento di colei che rende il tempo udibile e visibile su carta.

I versi di Enrica Loggi sembrano descrivere una realtà che, per il suo naturale essere, da sola non si racconta ma nemmeno si cela; si apre a tutti e nuda utilizza l’essere umano, quasi a volerlo prendere in giro. In questo caso la realtà si mimetizza nell’autrice, per farsi descrivere nelle sue più intime differenze, per farsi vestire delle vesti più belle e/o umili lasciandola però libera di interpretarla o, forse, di costruirla.

È questo che poeticamente leggo tra le rime di Enrica Loggi: un richiamo alle sue memorie attraverso versi che scandiscono spazi “liberi”, dissociati dal tempo osservatore e risanatore. Ma pacatamente rasserenata e alle volte anche rassegnata all’inevitabile sua esistenza a cui il cuore si presta ritmandola con il vissuto: «C’è una parola che non so più dire / e vive negli istanti / colorata di tempo / stretta / a una rima di vento. // Ma in primavera tornano sui rami / le coroncine verdi, / ed anch’io a raccontare». (p. 16)

«…poetessa che conosce la differenza tra comunicazione e espressione» scrive in exergo di …A una rima di vento Franco Manescalchi.  Aggiungo una poetessa che riesce a trasfigurare uno sguardo emotivo in versi razionalmente poetici, che rimandano alla vita che appartiene ad ognuno così come lei, poetessa, appartiene a questa vita.  E, pertanto, non vi sono rimandi al mito, se non a quello della vita, che sempre ognuno ha da decodificare.
Cosa non semplice, perché la vita ha le sue oscurità e il suo fermo-immagine.  Il narrare della Loggi ricorda il pause di una tecnologia che gioisce del presente perché pregno di un passato che sta per nascere e speranzoso di un dispiegarsi di un nuovo futuro.

Trema l’immagine evocata dalla sua liricità, come è propria dell’immagine fermata di un video: oscilla nell’indecisione di un passato da raccontare  ( "Raccomando alla sera queste fole" ) e di un futuro da vivere   "…e canterò la luce del tuo dire nel mio precipitevole disire." (p. 15)

Tra una pagina e l’altra, nel susseguirsi delle poesie, un commiato di sensazioni: da un concedersi all’amore altrui alla ricercata, quanto necessaria, solitudine poetica:  "Io sono qui, / tra il sole e la neve." (p. 80)


"Enrica Loggi in tenero distacco" di Maria Lenti


Tentare il senso del titolo (…A una rima di vento di Enrica Loggi): il gioco nell’enigma.

Virato e posto sull’astrazione di una figura: “rima” come refolo, soffio, alito? “vento” come scombinata possibilità o scompigliata probabilità? “rima di vento” come andamento giocoso in chiaroscuro, come flusso di energia duplice e concreta? E quella “a” preceduta da sospensione: una dedica? un pensiero in catena ma in folle tenerezza?

I testi poetici – alonati di vaghezza, fissati dall’autrice picena su stilemi, già ricorsi in raccolte precedenti, con variazioni (luna e suoi addentellati, acqua e suoi referenti, sole e sua luce di riscatto, foglie/alberi di intenso simbolismo, amore/amicizia/sodalità-unica salvezza al mondo-, solitudine/sola beatitudine nel deserto della città, l’estate-stagione solare, ecc.) –, se chiariscono le prensioni, restituiscono lo slittamento da esse.

Nel distacco tra i due termini si situa la poesia di Enrica Loggi: in un terreno le cui sporgenze – la fine delle cose, la vita che ti “frega” anche saltandoti e accelerando i passi, le assenze numerose e in progress – rientrano in interiori animi a cercarvi ciò che resta, meglio ciò che mai se ne è andato; in un ambito che non “tradisce”, essendo quello proprio di un sentire finissimo; in una distanza non sibillina, significativa, dalla storia minuscola e grande per ricaptare le urgenze feriali – il sabato del villaggio improponibile al proprio sé –, un abbraccio improvviso non sotto l’impulso della gratitudine quanto dell’affetto, la scoperta ripetuta del fiore che sale, l’incontro di un corpo forse non “gemello” eppure caldo di reciprocità.

Così, per esempio e passim:
«Mi raccolgo nel letto della foce /il fiume va tremando verso il mare / sola come la sera dei miei giorni / l’estate padrona di me.»

«L’assolo pungente della storia / le minuzie di vita. Resta il canto / questo piccolo affanno / di gesti quotidiani, averti stretto / a me nelle abitudini del cuore, / la prosa che si tesse / nell’assolato labirinto / per uscire alla luce , appena salvi.»

«Sono qui sola e parlo / con gli ultimi fantasmi delle ore / ma raccolgo il loro merletto / scendendo i gradini della sera.»

«Il vento che si piega sui germogli / il verde giovane dove indovini / la prima età del grano, e un giorno arduo / ma capace di gioia sotto il sole, / il vento in una raffica gentile.»

Vive in suo tempo di sogno e di sogni, la poesia di Enrica Loggi, o tende a sfidare quel tempo e il nostro di prosa? Il rischio del fermo-immagine nella voce, mai contaminata dal presente poco attraente e risuonante nella inversione sottesa, potrebbe determinarsi o farsi ad ogni momento.
Consapevolmente, tuttavia.

Mala tempora currunt, lo so, sembrerebbe dire silenziosamente la poetessa. L’accenno, infatti, è in spostamento, mentre situa tonalità e cadenza dentro una sorta di passione per la luce dell’esistenza, mai spenta, in una serenità da eco classica (per misura e timbro) e in una sorta di desiderio di essere dove non si trova (non nominandolo, peraltro, questo luogo lontano dal suo cuore). E fa agire, oltre al ritmo e all’accento, i singoli elementi della phonè, reiterando sillabe di uguale suono e durata, appunto. Come nelle assonanze degli stralci citati: so (la), se (ra), me; (racc) ol (go), (f) oc (e), (gi) or (ni), (padr) on (a), (tr) em (ando), (c) om (e), (fi) um (e), …

…A una rima di vento, allora, spiazza, sorprende: sia il lettore che preferisce trovare nella poesia la sottolineatura di mali e malanni attuali perché chiede alla poesia conferme, solidarietà contro la deriva, una civile indignazione apertis verbis, sia il lettore che nella poesia vuole complicità della fuga e della sua attesa, quella del bene stare indotto dal pensiero altro rispetto all’intorno ma senza rasentare la sfera dell’impossibile o del déja vu.

Entrambi spiazzati. La denuncia è nell’assenza degli orrori, della contrarietà ad essi: il tacerli è una “punizione” nei loro confronti? Può darsi. Entrambi sorpresi: la fuga è nella presenza di “paesaggi” (dello spirito) non rimossi nonostante le dilapidazioni e lo scialo. Valgono come risarcimento e proposta? Forse sì.

“Il vento”, nell’una e nell’altra modalità e virgolettatura, ne è il risultato e viene inserito in “rima”. Un vento che è tanta parte della vita di ciascun e ciascuna vivente: reale e metaforico per chi abita al mare e per chi abita in collina, in montagna; per chi ha nella vita movimenti sul “no”, per chi – nella vita – segue il corso lieve del “sì”, nelle somiglianze e nelle simbiosi, nelle diversità e nell’incessante andirivieni di strade conosciute perché mai differenti: la natura, i sentimenti, l’etica dei valori. («Camminiamo di nuovo come pietre / che una piccola frana scatena nella valle / e un nostro accento si schiude / allo sguardo veloce, / al silenzio di chi ci passa senza voce accanto.»)

Piccola, grande verità. “Il massimo di verità (espresso) con il massimo di pudore”: questo “il respiro del verso” di Enrica Loggi. Franco Manescalchi ad apertura del libro (edito da Polistampa, 2012, arricchito di tre disegni vibranti di Giancarlo Orrù ne individua le caratteristiche.


31/03/13

“Nel colore della vita” di Francesco Varano (appunti tematici sul libro di Enrica Loggi)


La poetessa sin dalle prime poesie costruisce un inno a ciò che è vivente, così riferendosi al grigio delle case, da dove nonostante la difficoltà nasca qualcosa che prima non c’era e da singole parti del corpo in cui risiede la vita, quali le labbra, mentre il vento imbastisce la creatività generatrice dello stesso lavoro poetico, con riferimenti all’importanza degli elementi naturali in alcuni versi in esergo come la foglia in Pasternak e i granai di vento in Arnaut Daniel, e le nuvole in Riccarda Barbieri, portatori di vita e della vita: sembra una liturgia della natura in un suo cerimoniale. Nel verso e nel suo movimento viene riconquistato il proprio nome altrimenti disperso, un “recupero” di una identità in una città in cui c’è il pericolo della solitudine e dell’assenza delle persone. <> (pag.17). Perché la dissipazione del proprio nome? Perché una città in crisi di sentimenti? Perché un caro luogo solitario? Enrica registra sotto forme di affermazione e non di interrogativi, nella sua poesia l’essere. La sua testimonianza dell’essere ci invita a una riflessione su quella cultura urbana in cui i semplici sentimenti del dono sembrano involarsi e nascondersi senza dar conto, tuttavia la solarità si può incontrare sotto forma di qualcosa di vergine o di simulacro, quasi un viatico per continuare a tendere l’amo, cioé per continuare a vivere. <<…e il grigio della città / mi regala la veste di una pianta/ annosa e vergine, e il simulacro/ incontrato per strada che s’illumina/ d’un mazzolino di fiori disfatto>>. Sempre nella cultura della città, il volto di un tu poetico si mimetizza con il colore della sera, nascondendosi, divenendo altro: <<…la sera avanza e passa/ nel colore che cambia le sue luci/ il tuo viso che sbianca per amore.>> . A volte quel tu poetico è avvolto nel pallore dei gesti, altre volte è destinato a incrociare orme fitte su strade e sabbie, quasi a entrare nell’intensità della vita per qualche istante e a percepire la misura dolce della vita nonostante una giovane commedia.(pp:20-21). Contraddizione sì, dunque, ma portatrice di altra linfa vitale.

Dagli elementi naturali segni della vita si può risalire nella poesia di Enrica, a quello principale (che ricorre in diverse poesie) quello del vento, nel suo significato etimologico di anima, e quindi di un racconto poetico in cui l’anima segue un percorso verso l’essere (l’Essere) partendo dall’esser-ci.<.(pag.24). Il percorso dell’anima è rappresentato dall’identità dei corpi con il vento ( confonderci col vento) e dal ritorno a una vita originaria dell’anima stessa in senso platonico, come forma della conoscenza e contemplazione del bene, dalle forme fisiche a quello della buona amministrazione della città e infine all’idea del bene in sé. Nonostante che a volte l’anima resti impigliata nel mondo sensibile, <>(pag.24). Anche in questo tragitto dell’anima sembra esserci una doppia marcia : quella di elevarsi verso il sublime e quella di rimanere nella solitaria landa di qualche luogo sensibile, noto o meno conosciuto, e si vaga anche se poi si è nella luce. Purtroppo si rimane confusi in un pieno indistinto della contraddizione, anche qui.<<…Oggi nel mio pensiero cresce un anno/ una plaga deserta più del vento/ color nulla, vagante nella luce/ di giorni nuovi che conosco/in fila come fiori al lungomare>>(pag.25).

Di contraddizione in contraddizione: perché adesso il tu poetico è un personaggio celeste(pag.28), che tenta di trattenere le parole( la parole), <>(pag.28).Sembra Enrica volesse portarci a una conclusione: - anch’io non ho la possibilità di concludere una mia nuova liturgia della parola poetica e consistente, perché la lingua a cui si attinge non è adatta! Esistenzialmente Enrica ci sollecita a prenderne coscienza, a considerare la possibilità che gli uomini possano avere per entrare nell’essere attraverso la parole, o sostando ai piedi dell’albero delle parole (pag.29). Le parole e il nome sono alla base del linguaggio e della possibilità della comunicazione, per ora sembrano negarsi o negati, in modo irrevocabile. <>(pag.29). Qui il canto poetico si fa oggettivo e storico, perché nell’assenza-crisi del nome c’è una mancanza d’identità della persona e l’uomo precipiti in una storia in cui non ci sono strumenti di decifrazione. <<….dal ciglio alto della collina/ forse un uomo perduto nella storia…>>(pag. 38). O forse motivi della sua consistenza e della sua essenza,che non trova salvezza nemmeno all’interno del rapporto di sensibilità io-tu. <>(pag.44). Forse antichi e attuali amuleti di protezione e di salvataggio, se non di salvezza sono le acque del mare. <> Forse i dubbi sull’identità si placano nell’atteggiamento contemplativo di una natura vista come paesaggio, nel senso romantico humboltiano del termine, come riscatto o elemento di trasformazione del reale, luogo utopico.

Enrica non smentisce questa idea perché nel nominare il mare cavità, subito l’accosta all’attività rigeneratrice, dunque, trasformatrice, dal niente all’essere. Questo atto creativo appartiene anche alla creatura che come individuo si rigenera all’interno degli elementi naturali che amplificano continuamente la loro energia, e in questa loro pienezza si mostrano come nuove potenzialità di forme a cui il soggetto umano attribuisce un significato: allontanare parzialmente il dolore, creando segmenti creativi e di bellezza o creando solidarietà tra gli elementi naturali o facendo emergere la vita al di sopra di ogni altro aspetto. Enrica crede in questo salto utopico.

C’è un’opera del pittore svizzero Arnold Bocklin, che nel 1880 dipinse la prima versione e poi fino al 1886 cinque versioni di L’Isola dei Morti. Si tratta di un quadro in cui due massi di roccia fanno da contorno a un gruppo di pini svettanti alla stessa altezza dei primi. Il tutto a forma di isola e vicino il passaggio di una barca con una figura e una bara. L’imbarcazione è stata ritratta molto ridotta rispetto al resto. Si evince che il tema della vita anzi della virilità creatrice dei pini è ben evidenziato dall’artista. Il paesaggio è posto al di sopra e al di là della morte, in grado di dominarla e di far prevalere il principio di vita. Penso che Enrica si rivolga al paesaggio in questa direzione. Lei è nel pieno della sua attività poetica nel pensarlo come alternanza di pieni e di vuoti, di natura creatrice e dissolvitrice, di grandezza di energia e di annullamento fino alla sparizione di ogni ente di fronte al soggetto stesso che sparisce. La poeta crea un confronto dialettico in cui c’è attrazione e quindi creaturalità, oppure disaffezione e allora sembra affiori il ni-ente, il non-ente, la mancanza dell’essenza dell’essere. Se all’inizio avevo detto trattasi di una poesia dell’essere, ora posso dire delle intermittenze dell’essere, ed è per questo motivo che mi attrae moltissimo la poesia di Enrica Loggi,perché in questo suo poiein lascia spazio alla libertà laica del dubbio, della pluralità, della dialettica razionale e dei sentimenti, anche di quello verso l’ospite divino, che potrebbe essere l’inconscio, o quell’eros , come nel Simposio platonico, predicato da Diotima, come elevazione dalla bellezza degli elementi naturali compresi i corpi belli alla rigenerazione del bene o del sommo bene. Che la fede di Enrica sia una fede laica è testimoniata da una poesia di pag. 47, in cui Autore e Ospite, principi o sostanze materiali sono in stretto riferimento a oggetti già esistenti nella natura naturata, quando per primo dice che l’Autore potrebbe essere il giunco o migliaia di uccelli e di seguito quando conclude che uno dei gradini della scala che sale verso il cielo passerebbe davanti alla porta di casa per poter salutare l’Ospite. <> (pag.47). In questo palpito meraviglioso in cui Enrica vede fluttuare individui, elementi, cose, pallori, campi, malve, semi, baccelli, mi piace immaginarla ancora nel momento in cui con la mente attraversi le distese degli orti, dei giardini, delle campagne e con il pensiero e la parola (poetica) crei, riesca a trarre dal niente di quattro semi la vita o l’albero della vita, come inizio di una aspettativa psichica e intellettuale, e veda le parole ricomporsi nel respiro della natura e quindi nell’alito creaturale per dare vita a quel sogno di unità psichico-somatica, dopo aver visto le parole smorzarsi, spezzarsi e cadere, o la propria caduta nel colore della vita, nonostante l’appoggiarsi alle parole e alla voce dell’altro (pag.69).In questo frangente, la poesia più che denuncia è un farsi una liturgia del riscatto, una brama di alzarsi da sola nella sua corporeità di persona, uscendo dal mutismo e dando alla luce una vita, quella primaria, cioè dell’albero della vita. Dopo un’inchiesta sulla natura e sull’umano, passando attraverso distorsioni , pericoli, dolori a volte molto sensibili della psiche, Enrica Loggi compie un suo percorso affermando con forza i diritti della coscienza e di conseguenza dopo un’autoanalisi poetica i diritti della corporeità e della natura propria. Questo tipo di poesia è necessaria e di conseguenza la poesia di Enrica è essenziale e fondamentale all’interno di una storia dell’individuo e della cultura e afferma quei diritti della coscienza, come fare ciò che si ama e non fare ciò che si odia. Leggendo il libro si incontra questo mondo di Enrica persona acuta, donna sensibilissima e la sua ricca umanità.

Riflessioni di Massimo Consorti su "...A una rima di vento"


La mia canzone è una foglia nel vento...Enrica Loggi è inaggettivabile, incollocabile, non inquadrabile né in stili né in contesti. La sua è poesia pura, quella che, raffinata come un punto di tombolo, entra dappertutto grazie all’esilità e soprattutto a una sinuosità che diventa vortice. Iniziare a parlare di “...A una rima di vento”, ultima raccolta di versi di Enrica Loggi (Corymbos Poesia, Edizioni Polistampa), con parole tratte da un film, non deve apparire né bizzarro né controcorrente perché all’andare “oltre”, al navigare “controcorrente” ci pensa la poetessa: “...tutto sembra/bruciare in un istante questa noia/che portano le ore ferme/al pianto delle città/...).
Perché lontana anni luce dalla facile oleografia di versi composti per attrarre, Enrica Loggi graffia con unghie coperte di velluto. “Veniamo qui per confonderci nel vento”, scrive. E si schiude un orizzonte che affascinerebbe anche chi la poesia non l’ama, non la comprende, la orpellizza come i sentimenti poveri delle statue di sale.

Nelle immagini di Enrica Loggi il vento spira, gli alberi e le foglie ne assecondano il verso, nord o est fa lo stesso perché nel vento tutto si spiega, non solo le vele delle barche del suo mare ma anche i sentimenti e le sensazioni di anime niente affatto pacificate. Contrariamente a quanto appare, Enrica Loggi non è la poetessa dei voli puramente poetici, puramente letterari ma è molto di più è “come una notte breve che balena/mentre vegliamo accanto al nostro sogno”, perché se sembra facile o difficile sognare, diventa impossibile il vegliargli accanto, una bella sfida soprattutto con se stessi.

Della poetessa di San Benedetto del Tronto abbiamo sempre apprezzato i toni con i quali compone stati d’animo/sensazioni/emozioni, sembrano pennellate di parole e a noi, le parole sono sempre piaciute, anche se solo quelle con un senso, delle altre non sapremmo che farcene. Da esploratrice attenta della propria anima, Enrica Loggi adopera le parole come in un rito magico, le miscela, le compone, a volte le sfibra e le modella per fargli assumere quel significato, in quella frase, che diventa movimento sinfonico, un andante con brio o un andamento lento, e cattura lo spirito mai quieto che “Era un battito di cuore in fuga/nell’opaca chiarità delle mattine/invernali quando si tormenta/il mare che porta i tronchi sulla riva/distesi tra conchiglie rotte/...”.

Scrive Enrica Loggi: “I poeti sono soli/col loro inverno/le scarpe bianche per uscire la domenica/le ali stropicciate/Mentre piove grigio/e le ultime biciclette/lasciano scie di pioggia sull’asfalto/si alza il cuore dei poeti/e chiama il cielo/”. Spesso la solitudine dei poeti è la nostra solitudine e non c’è nessuna posa tardo romantica in quello che è, e resta, l’unico approccio possibile per una vita impossibile: volare nell’immenso. Anche su quello della tristezza.

28/02/13

Si mostra, in un'onda alterna
di note il viso
di primavera, tra parole
strappate ai nuovi silenzi, guadagnate
a un paesaggio semovente
in mezzo
a baldacchini di nuvole,
il mare dal dorso alato.

(E.L.)