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recensioni

Recensioni di Enrica ai libri di Miriam Pasquali, Anna Elisa De Gregorio, Maria Grazia Maiorino, Guido Garufi, Salvo Lo Presti, Carlos Sànchez.

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“Corallo rosso”, di Miriam Pasquali

Miriam e la sua poesia sono lo stesso sguardo, lo stesso fruscio che evoca parole dal senso soave, dal dettato sottile: immagini di vita vissuta lungo la traccia perfetta dell’amore, che in ogni verso e in ogni senso ci dona visioni di sovrana quiete, d’incanto quasi celeste. Il grigiore della vita svanisce come esorcizzato da pronunciamenti che fugano ogni tempesta, si reggono nel profilo di un’ispirazione che è tutto, è attesa, è percorso, lungo i binari di un’innamorata fantasia che danno spazio alle parole. Come a cercare un tesoro in fondo ad ogni labirinto, il verso di Miriam è breve, cadenzato come un ripetuto, ritmico sospirare. Amare come vivere, vivere come amare: il cuore di queste liriche sta nella loro disarmante semplicità. Ci sono versi che s’avvolgono nell’inneggiare alla preziosa filigrana della vita, che è intesa nel suo farsi, nel suo nascere ad ogni angolo dell’esperienza. L’Autrice è presente ovunque col “corallo rosso” del suo cuore e ci si offre senza peso, come una libellula che le parole descrivono, nella mappa della sua immaginazione, della sua navigazione interiore: creatura immersa nel mare dei ricordi, dei sogni che s’affacciano a formare un’assidua e ridente rete che ospita il dono di una pesca miracolosa, dove Miriam trova anche per noi la sua profonda verità.

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“Un punto di biacca”, di Anna Elisa De Gregorio

In questa nuova raccolta di poesie Anna Elisa si racconta e ci racconta un presente che oscilla tra dimensioni mobili passate e future, e si dipinge attraverso un tessuto di parole e richiami, rimandi tra di esse. Un verso armonico, leggiadro e veritiero ci restituisce, in mezzo a svariate descrizioni, citazioni pittoriche, da Vermeer a De Chirico, il ritratto minuzioso che Anna Elisa lascia di sé: una poetessa che sa come darci il suo profilo, la sua eleganza e novità attraverso un fraseggio composito e denso di significazioni. La vicenda personale vive rispecchiata in locuzioni molteplici, che illustrano, dai dipinti alla traduzione delle minute esperienze quotidiane, l’aspetto interiore, il rispecchiamento, che Anna Elisa ci porge in maniera originale, unica. Ne consegue uno speciale ritornare sulle proprie parole che maturano via via, nel cuore del verso che diventa per chi legge esperienza millimetrale che si diffonde e conquista a poco a poco.
Il “punto di biacca” è l’emblema di un’espressione pittorica, che culmina in una dimensione infinita, sia per l’arte che per la poesia: è il dolce suggerimento che Anna Elisa semina di sé, perché il lettore conosca le sue orme e arrivi fino a lei, che tratteggia il diario della sua e della nostra vita con estrema filosofia. Viene invocato Eraclito in esergo, e tutto ciò che passa e fugge in mezzo e a causa dell’armonioso disordine del nostro esistere. E’ da questo assioma che la poetessa parte, come da una tela di Penelope che lei tesse per il ritorno di chi può amarla, obbedendo a una proposta discreta e suggestiva, a un’immagine in cui lei che scrive si riflette e chiama a raccolta le voci della poesia. Una poesia che è una filigrana, una doratura continua, un rinvio all’espressione a volte furtiva e anche ironica che ci rivela la trama di un’arte che il tempo non può spegnere, e a cui la vita non rinuncia.

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“Le rondini di Manet”, di Anna Elisa De Gregorio

Il libro di Anna Elisa De Gregorio ( Edizioni Polistampa, Firenze, 2010 ) è un alfabeto di evocazioni, una trouvaille di presenze: da orizzonti remotissimi, l’occhio si sposta a una prossimità che disarma. La pagina si presta ed è come in ascolto di un infinitamente piccolo che sostanzia ogni racconto. Una poesia già data per assunto nella scelta delle tematiche, e ogni volta inverata, sapiente, ubiqua. I versi si sperimentano continuamente, anche nella misura, c’è un moto avvolgente dove la poetessa si diffonde, immersa nel suo sogno eppure sveglia, pronta a catturare tutte le faville del fuoco che ha acceso , si direbbe, facendo vibrare fra loro le parole. Un argomentare prossimo ogni volta a una specie di parabola, fra il gioco e la divinazione, e insieme affidata a quel filo di “nulla” che Anna Elisa sa raccogliere e mettere nel conto, tra tutte le sue epifanie. Anche di questo segno che è come un sospiro tra le alterne visioni, vive la bellezza inedita di questa poesia, il suo spuntare sulla pagina con lo strascico della memoria e la novità del presente. Forte di questo essa si affaccia a un tempo che la consegna a tutta una sua mitologia minima, sporta sulla soglia di veri e propri happening espressivi.
Le “Rondini di Manet” sono un libro di grande nitore formale, di esemplare invenzione. Dall’inizio alla fine, la sostanza poetica ci accompagna senza mai tradirsi, col suo background di esperienza vissuta in un costante bagno d’umiltà, ci porta tra le cose che non sappiamo più vedere, ingrandendole con la sua lente magica, ci immerge nel fascino di gesti e movenze del ricordo che si fa immanente e diventa prodigio, basti pensare alla davvero inedita evocazione del fantasma estetico di Ilaria del Carretto…
Avevamo bisogno dello sguardo di Anna Elisa per ripercorrere i nostri sentieri malati d’ovvietà e scoprire che esistono parole che possono illuminare, rime che possono svegliarci, per una diffusa sapienza che sa non esibirsi, ma che avvolge con impalpabile tocco il dono delle sue parole: una voce che gioca con l’invisibile, guardiana del bello e custode di ciò che è umile, nelle righe di un dettato di fine amore.

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“La pietra salvata”, di Maria Grazia Maiorino

Cara Maria Grazia, mi perdo tra le tue parole, perché ciascuna è un seme che moltiplica la sua essenza e si fa prodigio, musica diffusa nel suo ritmo continuo di preghiera.
Scrivi sull’onda di un segreto che lievita dentro ogni tuo pronunciamento. In punta di piedi ti traduci, ritocchi i versi come miniature. Io ti leggo e mi pare di stare in un giardino, fatto di sole e d’ombra che concede ai fiori di brillare anche nel buio.
Nei mondi di parole che s’affollano, la tua penna si muove veggente, così che ad ogni accento, nel silenzio, affiora una creazione delicata, di ricordi cangianti, di dolori che mescolano visioni e lacrime: un canto evocato come in un’ala d’angelo le piume.
Ogni tuo verso vale la tua vita: un cespuglio, un groviglio di fioriture misteriose, dove tutto come niente si traduce e insegue una missione, che è il tuo universo regalato a noi, proteso come un argine di fiume, e ricco di riverberi, d’immagini, di luci che s’accendono.
Scrivi e canti, ed il tuo dire sincero si fa mite, come un vibrare, un ricordare un porgere additando il sentiero della verità, traducendo ogni immagine nel chiaro vestito dei tuoi versi, e insieme nella nuda compagnia che offri a chi per mano si lasci condurre a stupirsi del Creato, ad inventare un piccolo, grande nuovo dire, che abiterà la notte, quando il libro sarà chiuso, e comparirà tra i pensieri come un voto, un volo, un chiaro mistero d’ogni posa e luce.
Così continua  il mio viaggio tra le tue parole, e ancora molto avrò da scoprire, in questa tua “pietra salvata” come in un orizzonte fitto d’erbe, nostalgie di un’alba, che è la tinta dei tuoi viaggi policromi, sognanti: tocchi di grazia multiforme, umile e alta.

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“Fratelli”, di Guido Garufi

In questa poesia come in grani d’un rosario, le parole scandiscono una ad una il loro viaggio, animandosi dentro il proprio suono, ripetendo a voce alta anche quello che è un sussurro.
E così esse sbocciano da un lungo desiderio, scivolano sulla pagina evocando l’origine di quel che fu e di quello che ancora dev’essere. Così la Poesia s’innalza fino al limitare della notte, in quello che la mente e i sensi rincorrono dentro un crepuscolo, nella voce che ignara dice cose di sé e si traveste, sotto un manto di rimembranze. Offre a chi legge la sua mano nuda, china tra i fogli a raccontare, ad immergere l’inchiostro delle parole nel tremore e nel sogno di ogni giorno. 
Guido trascrive ciò che “ditta dentro”, dove la saggezza affronta il limite dell’ingenuità, e disciolta si offre al lettore lungo tutti i suoi giorni, che come fiammelle tralucono eternità e dolore, gioia senza una terra in cui posarsi, volo d’ali nel cielo del proprio avvenire, e del presente profilo docile d’appartenenza.
Un pellegrinaggio dentro le giornate di un verbo onnipresente, una magia che si ripete e si traduce ogni volta. Si alternano le innumerevoli definizioni di quello che fu ed è la poesia, piccola grande Arca contro il diluvio, colomba incandescente che scrive il suo tragitto, le sue orme nella sete d’Assoluto, e riesce a stamparsi nell’immaginario di chi legge come un disegno a china, o un origami delicato e trasmesso all’intelligenza, in questa che è una storia di verità e amore.
Così si passa attraverso un diario costante, un interrogativo nudo, purissimo nel sentimento comune che affratella e si trascende in infiniti rimandi, giochi e segni che il volo e l’agone di Guido trascrivono su sabbie e acque, silenzi, stagioni e argini.
Si levano i versi a tradurre un’innocenza struggente, oltre che un verbo lucido, infinito, dove si nasconde l’angelo della Poesia, e il suo tremore di perla che si teme perduta, e invece è un sempre più vigile segnale di bellezza, di bontà e amore.
Non smetterò di leggere, tornerò, nella culla di questi pronunciamenti carichi di inedito splendore, a cercare altri indizi, disegni, culle, straordinarie ellissi, carambole di un verso padroneggiato al millesimo e per questo, vago, indimenticabile.

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“Diario”, di Salvo Lo Presti

E’ passato un po’ di tempo da che Salvo Lo Presti mi ha affidato il suo libretto azzurro. Ho lasciato che le pagine penetrassero la mia memoria poetica per accoglierle meglio nel mio sentire. Sono semplici, lineari quando non eleganti confessioni della propria vicenda umana, guarnite da versi pieni d’armonia, anche dove toccano corde difficilissime. Il pessimismo sottile di Salvo è una corolla esistenziale ricca di eloquenti sfumature. Il poeta ci fa semplicemente dono di sé e del suo quotidiano, inquieto suo malgrado, desto ed assorto con le sue voci inclini alla tristezza, ma vive di un loro energico dispiegarsi.
La pagina di Salvo è questo suono a volte dissolto delle sue parole ma vigile nell’operare sulla poesia. Nessuna vanteria, nessun “dejà vu”. I suoi versi chiedono di poter entrare nella nostra coscienza come in un sogno, a volte come una apparizione che ci chiama. Salvo si avventura nei suoi giorni tra  presenze leggere e celestiali che sorreggono i suoi versi brevi e li lasciano vibrare come alla ricerca di una benedizione della vita, uno smentire la sorte dolorosa nell’atteggiamento di chi è strenuo testimone del proprio mondo.
Ci sono passaggi, in queste poesie, che evocano l’infinito, la complessità dell’universo e la sua cecità. Volano le parole a contemplare e ad illustrare un io poetante che si esprime attraverso innocenti colori e gemiti, un parlare quasi senza voce, una vita che si unisce alle cose attraverso note dolenti-cangianti, nello spezzarsi del verso a rincorrere un canto policromo che raggiunge l’orecchio e non lo abbandona.
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“Continuerò a cantare”, di Carlos Sànchez

Sfogliando man mano i libri di Carlos mi sono ritenuta fortunata perché quello che la mia bocca può dire è riposto nello scrigno di questo e degli altri libri, e si annuncia pagina per pagina come un percorso fluviale dove l’acqua delle parole sgorga senza far rumore, diventa idea, diventa mente.
Si frantumano le parole in esili versi, che avanzano, come i passi di questo hidalgo, cadenzati, diffusi in una casa che immaginiamo vicina alle nevi dei monti. Una storia nella storia, un rifrangersi di luci ed ombre.
La poesia entra, come una ballerina russa, dal vano di una finestra, in un brano che ricorda Chagall. E veramente a un dipinto di Chagall somiglia questo far versi, popolati di cose anche minime, sospese nell’aria in cui Carlos si muove.  Un aquilone è il verso di Sànchez, librato nel vento. Pieno di colori e guidato da una mano bambina, sotto un cielo amato e dimenticato, nel filo esile che porta le parole ad abitare questo cielo, poi a dissolversi come creature della fantasia, passare per un attimo davanti agli occhi, al cuore per lasciarci sulla terra a cercare di moltiplicare le nostre visioni.
Ci sono alcune poesie in cui Carlos prende quasi le distanze dal presente, è come un esercizio spirituale quello di reggersi altalenando e guardando le cose  da un angolo segreto, e pare anche che tutti questi scritti non ci abbiano ancora detto tutto. Ma in questo nuovo silenzio eloquente, in questo camminare giorno per giorno, sta la Grazia che il poeta aspetta e a volte rincorre.
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“Tutto scorre come un fiume”, di Carlos Sànchez

Conoscevo Carlos Sànchez da un paio di apparizioni (è lecito definirle così) a San Benedetto; apparizioni, perché la sua veste poetica lo accompagna in un alone particolare, come un sogno incarnato e diventato parte della fisionomia. Forse il sogno che egli vive materiato di poesia, sua compagna e “condanna”, che fa di lui che si definisce “gaucho” un vero e proprio hidalgo, strappato a Cervantes per virtù di un lampo benefico che gli attraversa gli occhi e la figura mentre legge in Castigliano, la sua lingua d’origine, i suoi versi pausandoli di trasparente dolcezza. Sànchez è innamorato della vita, dei suoi istanti, oltre i quali non vale la pena inoltrarsi; con Eraclito sente l’acqua del fiume che sfiora una volta sola, le stagioni che irrompono sul tessuto della storia per portarvi altre storie di vita, dove la “commedia” di tutti i giorni si mescola al tragico, e tutto vive nell’estensione del verso come in una poesia sulla poesia.

“Spero di restituirmi serenamente al caos / come fosse un’altra poesia”.

“Oggi m’ha preso di cantare/ e lo faccio zitto zitto/ in questa solitudine di poesia/ che è il mio canto.

Il verso lento, simile a un passo molle, di Sanchez vive nelle cose e nel loro “oltre”. Si apparenta al divenire doloroso come a quello di una grazia immancabile, che rende percorribile la sua melodia in una malinconia arcana. Il mondo sanguina di bellezza e infamia, sembra dirci il poeta, mentre tutto scorre, e alle nostre spalle restano gli amori, gli amici, i paesaggi che il nostro e il suo errare su questo “mondicino” lascia in un passaggio che è necessità più che avventura.

”Dài spazio ogni giorno/ al mistero/ non ti fidare del poi/ di un’altra vita… / bacia ora/ mentre hai labbra/ festeggia adesso…/ e questo sta a un passo dal “carpe diem”, ma in una misura più distesa, da cui il “mistero” trovi alimento, così come il “wu wei” del Tao, forse perché il canto, questa voce dei giorni trovi il modo di rigenerarsi e rigenerare.

” Non sapevo allora/che il destino finale/ non importava/ la meta era un sogno nel sogno/ il viaggio era tutto/ il viaggio è tutto/.

Sembra di ricordare Kavafis e il Calderòn De La Barca, de “La vida es sueno”, e nella stessa visione Sànchez accomuna le anime ai corpi, il paesaggio naturale a quello surreale di certi suoi versi, restituendoci la misura della fantasmagoria, della poesia delle sue origini argentine, che come in un tango, una musica distesa nella sua passione mescola immagini e presenze, errori che la vita ha riscattato, una sensualità diffusa, che confina con una stremata tenerezza. Una poesia, la sua, che è viatico, tessitura, abito, mondo.

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