ENRICA LOGGI
Fortuna
Racconto pubblicato in “San Benedetto città del mare”, Maroni Editore, 1998.
Dove le barche riposano sotto il sole, in un tempo misconosciuto alle case e agli alberi del lido – poche case ed alberi, rena, luogo d’incerto soggiorno traffico tramestio necessità miseria – una folla d’uomini rimasti tra l’ordito e la trama della storia come picciuoli che si scartano, si affanna a costruire un tempo di attimi e ore lunghe, ritagliare la realtà del lavoro nel caos della povertà.
Sempre sconosciuto è il mare, terre di fortuna le barche nella cronologia imprecisissima delle vite misurate a spanne o a dita, e gli uomini del mare raccontano poco, ai figli si insegna ad assomigliare su su fino ai nonni: si torna, mentre si avanza, un circolo si compie che doppia il capo dell’esistenza ma non sobbarca la vita che si scuce in più punti.
Così era quel paesaggio di rena e molliche d’uomini, reti calate a pelo d’acqua che sciabicavano, il mare che si restituisce alla terra accettando l’ingegnoso inganno di questi signori coi pantaloni alle ginocchia spolverati di salsedine, consegnandosi alla mensa della Durata che copre il tempo furibondo della necessità.
*
Era tutto piatto. Dalla marina ai colli magri seguendo un declivio lentissimo, inesistente. Il velo del sole si disseminava tra le stradelle e il sale profumava i limiti delle case basse, basse come il mare che in fondo ha un letto largo più di metà del mondo e dorme, si alza, chiama. La terra piatta era di sabbia appena concreata con le pietre aggiunte a solco o sparse. Tra le case vicine c'era questa vastità di humus friabile, il suo mentire l'acqua. Scendeva costantemente una dolcezza d'elementi come il dono di esistere e dire che si fa altro, ben altro: si fatica. Si rattoppano reti, vesti, barche s'impeciano in una specie di rogo, le cerimonie sono lente e fruste, chi partecipa fa quello che fa, felice è il mare che conosce ogni cosa, mangia beve sogna rigurgita restituisce ripara quello che ha a suo tempo potuto distruggere. Tutte le anime del borgo hanno là il loro nido. Soffiano le loro tempeste, recitano minutamente, s'adunano, si scompagnano.
Io non saprei ricordare. Sono qui che mi muovo a ridosso del muro del porto, seguo i tubi a volute che portano nafta. La vastità non ha un particolare sorriso e cerco questa parete (una lapide con molte lettere cadute, qualche nome sprofondato nell'acqua). Accarezzo le grosse teste degli ormeggi, sono nani, chiodi, matrioske tutte uguali, con o senza la fune che va nella barca a motore e poi dondola e dorme. Le barche dormono sempre, con uno o due occhi. Qui dicono sempre di sì, perché sì fa la corda con la barca, che se fosse senza questa lingua allacciata andrebbe ad annuire da un'altra parte, questa volta sulla groppa dell'acqua come un cavaliere senza mente.
E quando si spostasse più in là, imboccando la prima gola di mare per dove si va e si ritorna, tra i due corni dei moli, sarebbe avvolta dall'Elemento restando pur come un cigno nella momentanea palude, senza che alcuna corrente le presti serio ascolto.
Il Parò s’imbracciava la barca come una donna cannone e ci ballava allo zufolare dei mari, argani cigolavano in alto, in basso. La danza da lenta o lentissima poteva diventare macabra. Il mare sbatacchiava il donnone e il Capo non sapeva raccapezzarsi sul passo. Allora imbracciava la sua Forza… Scattavano remi e timoni, rabbia, il cielo sinistro. Il tamburo della tempesta lo sapevano da lontano ma mai, quand’era il momento le stelle dicevano niente o ci fosse stato un dio, solo il vecchio nume del Parò con la sua corte di dèi spaventati sotto il cappuccio di lana.
Soffiava Libeccio o Ponente, o a ridosso e capriccio insieme: prima era un blando risucchio che sprimacciava i pizzi della vela, tremavano appena le corde. La barca aveva un dondolio come di culla ninnata. Ma sotto c’era il terremoto. I corpi lo ricevevano in petto, dietro la nuca in pioggia torrenziale, tanto il mare, come levato da una potenza terrestre, un crepaccio sui fondali che fumigasse in alto, si gonfiava di colpo, ed erano fruste d’acqua a mani rovesce. Saltava su come se quel piccolo covo di uomini gli desse un fastidio tremendo.
Si tiravano corde, si issavano remi, ognuno al suo officio dimenticando ogni cosa, soffiando sopra la propria vita, rianimando il vascello e lacrimando scacciavano il mare da un lato coi remi e quello imbestialiva dall’altro, lo prendevano a male parole gridando dal bordo a stramaledirlo. Nessuno era più il capitano, la barca non era la barca, il mare neppure perché ogni presenza aveva lasciato il suo prezzo e perfino la vita.
Io ero accucciato nella stiva sopra i viluppi delle corde. Stringevo le corde nelle mani e le graffiavo, pensando così di graffiare la tempesta che tormentava mio padre. La barca mi strapazzava, e con la corda rotolando frustavo le pareti, picchiandola a morte. Quando si calmò, pensai che obbediva anche a me, lei che s’era fatta trascinare nel mare per quant’era cattivo, e per tutta quella cattiveria ci dava il mangiare.
C’erano giorni di acqua appena smossa, e pensavi che il pesce sarebbe venuto a trovarti da solo dentro il piatto, i bicchieri erano pieni d’orzo, l’albero toccava il cielo e la fortuna ci accompagnava fino a sera.
Avrei voluto misurare metro per metro e abitare la terra marina. Lì c’erano anche i morti… Va bene, sarei andato a trovarli come tesori perduti. Poi portarli sul letto vestiti a festa come fanno da noi. E poi di nuovo in mare, dopo i festeggiamenti a terra.
*
Si era partiti la notte, che l’acqua verde scura come un’erba benigna accompagnava gemendo sotto la chiglia mentre inghiottiva via via il legno nella schiuma e ad ogni istante si era come vicini a una foce dove il mare dovesse ancora incominciarsi. Era il mare o la notte? Cos’era che muoveva le stelle?
La barca sembrava guidata da uno o più astri, nascosti sotto la tenda che definiva in alto il mondo e in basso vagava con lei. Era un’umile, tozza riserva di vite inscritte nelle sillabe che abbreviavano i nomi tagliati in questa storia e muti attori del sacrificio… il panno ruvido della speranza, uguale al mare straripato nel cuore dei bambini, dei vecchi, gelava nella bonaccia.
Era muta l’acqua e lentezza portavano le vele succhiate dall’aria, ritagliate nel nulla più forte dove la barca si avviava, l’umido orizzonte poggiato tra chiglia e chiglia, inerte come fosse già alla fine tutto quello che doveva incominciare, e partenza e ritorno avessero confuso lo stesso desiderio.
Il percorso si ripeteva come una strofa pronta a rompersi, sparire nella breve, lunga partitura delle attese: interrogavano la notte, supplicavano il vento, il fuoco della luce che avrebbe vinto tutti i silenzi della luna, e chi dormiva accucciato sul pagliericcio svegliava il compagno, dalla casa di legno uscivano le prime funi sul boccaporto.
*
La mattina presto, la sabbia sapeva di lustro portato dal largo, in un paesaggio palustre svegliato da grida acerbe di uccelli dopo la notte in cui s’era pescato.
Tra una barca e l’altra in riposo sul lido si annodava una corda per i panni e le reti. La lunga collana non arrivava a specchiarsi nell’acqua, ma sulla rena luminosa vibravano ombre mosse dal tremore dell’aria. Maria portava il fascio di corda asciutto verso la casa, e come lei qualcun’altra avrebbe avuto la stessa cura, più tardi, forse vestita di nero, o una bambina mandata dalla madre, e nel tempo del giorno la corda sarebbe rimasta da sola ad affratellare le barche simili l’una all’atra, diverse nel nome. Gli zoccoli affondavano come i pensieri, e l’umidità dei ricordi recenti, la storia d’amore tirata anch’essa da una corda tra il mare e la terra.
La vita che attorcigliava le cose e Maria vi durava legata come a uno scoglio, ai figli, al marito che vivevano sulla paranza dov’era stato inutile invocare che fossero risparmiati i morè.
Aveva armeggiato tra silenzio e parole e poi si era richiusa. Di tutto il mare era stato più forte, e della veglia continua che le chiedeva.
*
Alla foce del Tronto l’acqua la succhiano le canne, e pare che anche il mare debba finire lì, arrestarsi per più di un momento a parlare con i boschetti esili che il fiume trattiene prima d’impelagarsi, e pare tutto un gorgo dove si crea per miraggio una specie di deserto, e l’acqua che abita ogni cosa diviene spaesata, non fossero i richiami degli uccelli rari. Non so dove guardare, mi arrendo. Penso al fiume che entra stracarico, esagerato e continua a sussultare fino al largo, tanto che l’altra acqua si arriccia intorno alla dolce: “Sei ancora con me?” ed ha inizio una danza-duello che dura per sempre, finchè dura il mare, e ad ogni istante chiunque venga può assistere a tale prodigio che fiotta e fiotta.
Ma il lancettiere non era così che abitava la foce. Ci andava la mattina con la barchetta, sganciata dal lido tra gli sbadigli e i soffi dentro l’aria d’inverno, e pare che cacci fuori l’anima bianca, tutta, ed è solo il mattino. Filì ha le ossa rotte del giorno prima: era tempo buono e la rete pesava, a tirarla, i compagni non si erano proprio sprecati, la barca era sua, era suo il paradiso e l’inferno.
Da quando l’aveva comprata ci si era sposato, lei aveva prevalso sul proprietario vecchio, l’avrebbe domata. Filippo con quattro compagni infingardi come chi la barca non è la ssuna e lavora a giornata.
Arrivato alla foce, se ne teneva lontano, sapeva fin dove arrivavano le mosse del fiume che ha il solletico e se non ti sbrighi a levartelo di torno lo hai nello stomaco. Lontano, le canne erano come un’isola falsa dove non si doveva arrivare, guai!
Il fiume, temilo più del mare, anche se sempre di acqua si tratta. Acqua! Acqua! La terra te la sei spesa tutta per una lancetta che non riconosce il Parò.
*
Con gli anni esistono per un Parò poche cose, che sfumano in nulla.
Nulla è l’allentarsi della fatica, il sole che fa sparire la barca nei raggi appaiati alla superficie dell’acqua e schiarisce le onde di qui a lontano, la terra svanita e più nessuno oltre il corpo che inghiotte sorsi di aria, si apre all’oblio.
Il nulla è il ricordo di quando tutto s’era smentito nel deserto della fortuna, in un velo di carte sconfitte fino al prossimo avvio, ancora il largo dove per un naturale amore si dimenticava, gli affetti sommersi nel principio dei viaggi e l’enorme guadagno di essere vivi e poter raccontare.
Il nulla è come l’orizzonte, lì tutto finisce, vi colano a picco i cieli, i venti, e pure il mare forma un’immensa cascata.
Dai nulla vissuti negli anni il Parò ha imparato che in fondo lavora per niente, ma lavora e gli basta.
*
La direzione stavolta è un litorale sconosciuto, o la foce dei fiumi. Lo scafo cerca un giaciglio nell’andirivieni dell’acqua che si versa nel mare, e lo trova nel fango, con la carena ribaltata che stride contro la terra, tra il frusciare del fiume che entra, trasportando fango. S’imbarca tutta la mota, e chi si è salvato seppellisce i morti che lo hanno seguito fino al fiume, le onde ormai più tranquille con in collo lo scafo privo di peso, e gli uomini in groppa allo scafo.
A volte si dà sepoltura sul posto, lontani dal proprio paese. Col tempo, i morti si vanno a trovare, sotto un cippo o una croce.
Le iniziali sul cippo sono anche le nostre, perché i nomi sono un pugno e si ripetono nelle famiglie.
Veniamo a trovare chi s’è perduto due volte, noi persi di qua, cerchiamo le nostre somiglianze.
*
Nel sole c’era anche l’uragano, e lì le nostre vite da destinare, le donne a riva s’incatenavano tra loro per propiziare i ritorni. Se la barca si faceva portare, scioglievamo la rete e l’allungavamo sul fondo, e l’Adriatico è colmo per quanto è basso, e che era basso lo sapevamo, anche quando diceva il contrario.
Il cantiere era piccolo, o avremmo portato le barche dovunque, a pescare i delfini da mangiarci per un anno. Invece Palmarosa, Federico 1 e Luigia erano proprio come i nostri figli, piccoli e malamente, e guadagnavano come i frechì. Pareva di portarli a zzerlà, e ci zurlavano loro con noi che a cena mangiavamo poco. Ce li portavamo appresso e la sorte a volte ci pareva come nostra moglie, come la strada, o un figlio che nasce e ti chiede tutto e puoi dargli tutto il poco che hai. Il pesce bazzicava qua e là sul ponte cercando i buchi della rete. Eravamo illusi tutte le volte da quel luccichio che era l’oro e la fame.
*
Federì stava seduto con le gambe allungate sulle tavole del ponte e i piedi che sfioravano di fuori ai calzoni l’impiantito chiaro, come un bambino faceva ondeggiare la spola sul gran corpo della rete a piazzarci un altro po’ di canapa.
La tartana così rinnovata era allegra, come Federì che non lo dava a vedere, gli nascevano solo due pieghe intorno alla bocca.
La barba che gli spuntava aveva i primi fili grigi eppure la giovinezza avrebbe tardato a lasciarlo.
Federico era quello che cantava le romanze sulla paranza, gli affidavano il compito di ricucire le reti, come a un vecchio o a un fanciullo, entrambi i quali lui era.
…”La donna è mobile”, lui diceva: ”La donna immobile”, aveva in mente sua madre che anche lei remmacchiava le reti sulla porta di casa, su una solita sedia, chinata la distingueva da lontano. Lui che di mogli e figli non ne aveva, ma era pieno di fidanzate.
Finita la pesca, era il momento di Federì. Si alzava sorridendo come dopo una sbornia, e si vergognava.
“La donna immobile…“ Gli appariva sua madre con un gomitolo di spago e diceva: ”A Federì, nen fa lu sciape“. Anche lui si diceva “Nen fa lu sciape, Federì”, ma la voce veniva fuori da sola incantata, potente in mezzo a quegli stracci di fustagno, girava per la barca dove gli spariva ogni cosa, il mare, le donne. Ce n’era solo una, immobile.
*
Il vicolo sembra una saetta rimasta per terra, scaglie di pietra formano un impiantito vecchio e illustre. Le scale della casa di Ida si aprono su un andito verdino ciancicato dalla muffa, quasi niveo nell’aspetto pulito come da una vecchia liscivia. Il verde bianchiccio dei muri prosegue fino al primo piano e alla stanza di lei che è come una nicchia tra il camino di mattonelle bianche e la macchina da cucire.
Vive dentro un ricordo dominante che il tempo ha spostato fino a me per più di un ascolto. Questa favola è il suo fidanzamento che nell’ordine della memoria sbiadisce il matrimonio, il lavoro del marito funaio, lei che vestiva bene e lo ingelosiva, con quel petto che ballava troppo… perché mi sono innamorata, gli ho mandato un biglietto che me l’aveva scritto l’amicammina ch’avì fatte le scole… Isse ne mm’arespennette, aspetta che ti aspetta per quattro anni, quando arriva l’altro biglietto finalmente e Ida non sa leggerlo, lo tiene con sé e aspetta ancora. Un giorno, me jève quace scurdate, viene la pioggia, e lui di sorpresa la copre col suo ombrello, la nasconde e me te dà nu vace che me sprefennitte. In questo vicolo. Quande timbe! Lu so velute ièje! Io vivo qui, se vieni ti racconto, non esco mai, lavoro con la macchina da cucire, ti faccio il caffè.
*
Lei sta sola, tinta di nero fumo e si porta qualche graffito al colore, sul fianco, vicino alla prora. In piedi su sostegni di legno, che la fanno sembrare una gallina grossa e invece è uno scafo ancora potente quanto inservibile tornato col tempo vicino al mare: passata la strada c’è l’Adriatico come una lunga veste smessa. Il legno è poroso di salsedine, acqua e polvere, fumo. Lei naviga a suo modo custodendo un pezzo d’eternità in mezzo al precipitare delle vite urbane nei loro atomi fitti. Non ha più il nome, l’augurio di salpare è rimasto nello slancio volitivo della carena, ti chiama ogni volta che giri la breve circonvallazione davanti al molo e non puoi negare uno sguardo a questa principessa scalza, durevole e vinta come uno strumento che lancia l’ultimo fischio.
Come ti chiamavi ? Nessuno ti ha chiamato “Giunchiglia”? Sento su di me le tue guance di legno, la tua balìa. L’orchestra ventosa del tuo viaggio mi arriva come da un altro orecchio. Resisti, e non lasciarti portare via.
*
La quiete si riconosce in poche anime e penso alle vesti di donna nelle fotografie bianche e nere delle barche che arrivano, l’ondeggiare dimesso sui corpi arresi al crepuscolo che consegna alla terra chi arriva, il cuscino di sabbia ha già raccolto il tonfo della carena. Silenzio ardente nel tempo che rimane al giorno e mescola amore al gergo degli incontri. Chi torna è diverso nello sguardo, si porta dentro un paese infinito. Si sbaglia il tempo tra l’arrivo e l’attesa posando un lichene sulle rughe dei volti, ruggine sui ferri degli ormeggi. E’ estate o primavera nelle sagome dei corpi, nella festa sommessa si cuce la veste nuova del prossimo imbarco.
Le grandi distanze della spiaggia radunano i crocchi e le favole brevi prima della cena.
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Tra Grottammare e Cupra il mare avanza fin dove la ferrovia taglia nell’andirivieni il suo limite, a pelo della scogliera che segue come un’eco di pietra che un fosso di canne divide dal cammino di ferro.
Come una dentiera petrosa si srotola all’ingiù verso l’acqua e non tradisce la traiettoria dell’onda che invece può in tutto tradire. Ma non ribaltò la barchetta che il ragazzo aveva fabbricato di carta nel piccolo bilico dei massi allungandosi fino a quello che scendeva di più a pelo d’acqua e che poteva scivolarlo nel mare dove poggiò la piccola cosa bianca.
La sorpresa fu che tra l’ondata marciante dal largo e la risacca imminente che avrebbero schiantato il foglietto quel giorno avanzava una piccola corrente da nord, leggera disegnata come una serpe d’acqua tra getto e risucchio.
Fu lei che portò festosa questa barca. Bianca, tra i movimenti dritti e rovesci, lei seguitava il desiderio del ragazzo che a lungo la vide passare, come si segue un lungo giro di rondine, che bianca non è.
*
Come un’isola nell’arcipelago di piccole terre lontane che mandano un grido fioco e bianco, la barca che s’inoltra con le compagne senza la vela ha un motore che tossisce nella chiglia e un uomo, due, nessuno sul ponte. Va lontano e vicino insieme, tornerà presto.
L’incognita resta, nel paesaggio del cielo e vento che sfiorano il breve trasloco e accompagnano da più lontano di un tempo lo scivolare sull’acqua e se piove, il piccolo o grande motore ringhia come può e si rientra per la botola sottocoperta, comunque si aspetta.
Al momento la rete compare, di nylon, e la vicenda è qui ancora quella delle origini, il gesto decisivo della paranza.
Si rientra con bussole nuove, il movimento meccanico fa pensare al mare in maniera diversa, e su di esso si può molto di più, ma comunque la rotta prevista scende nella stessa ventura della notte al largo, il mattino che arriva è il segnale del ritorno dagl’innumerevoli cabotaggi.
Nell’ultimo quadro dell’oscurità i drappelli di uomini sbarcano il pesce, mentre la città fa l’ultimo sonno e nessuno sa come e dove è passato il chiaroscuro del breve tragitto.
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