Dal linguaggio alla donna
di Enrica Loggi
Il testo che segue è una parte del saggio pubblicato come introduzione all'antologia poetica di Bice Piacentini. Il libro, del 1998, è curato da Tito Pasqualetti, promosso dal Comune di San Benedetto del Tronto e dall'Associazione F.I.D.A.P.A.
(Reperibile nella biblioteca della città)
I "Sonetti marchigiani" segnano un tempo che pare non trascorso: la captazione del linguaggio vivo della nostra città "com'era" è un testamento amoroso consegnato a un tempo che non si data, si situa in una zona di luce, sotto il cielo turchino di una San Benedetto che conosceva già la modernità, ma il cui cuore sommerso dentro la sua stessa preistoria riposava in questa lingua antica e dura, dalle sillabe aperte ad assonanze del sud, gelosa di sè, dei propri avamposti fonetici così diversi dallo stretto parlato delle campagne e colline retrostanti.
Ebbene, questa parola è rimasta da allora intatta, e non solo non dobbiamo dimenticarcene, ma anche volendo non potremmo, per la forza di una poesia altrettanto intatta e testimone.
Relegarla a pura visione di una realtà contrassegnata nel tempo mi sembra non volere, alla fine anche a distanza di anni ed oblio, raccoglierla e in sostanza leggerla, confrontarvisi.
Non si può museificarla in tal modo perché continui a dormire indisturbata nella sua nicchia prestigiosa mentre è nata perché, come tutta la poesia, ha sognato di vivere.
Leggerla vuol dire immergervisi e sentirsi ricreare intorno la sostanza corposa della parola dialettale che resta organismo vivente, o che chiede nella sua virtù evocatrice di essere ripercorsa nelle sue movenze vitali, senza le quali non sarebbe mai stata raccolta e il senso che l'ha mossa cesserebbe di essere poesia, creazione, vita, e questo è impossibile.
Chi la legge ha l'idea di percorrere una zona vasta e per molti motivi inattesa, di muoversi in una palude come di agitarsi tra onde senza scampo. Qui la parola è il luogo, la persona, la leggenda che si muove senza paura del tempo, con la prestanza di una femminilità che invade ed è invasa da una corrente epocale, frastagliata nei motti secchi, nell'onomatopea delle invettive, fino a denudarsi in versi che riproducono una nenia.
La forza del dialetto sospinge la scrittura e chiama altre leggi che sfidano l'impianto letterario. La vitalità della parola fa tacere il sovrasenso della letteratura, che resta una semplice misura, il più delle volte mascherata ad arte, se non taciuta quando la lingua viene semplicemente, docilmente trascritta, e a parlare vengono chiamate solo le voci del borgo, che culminano nelle agnizioni finali del sonetto, che così sigilla la vicenda e ce la consegna in dono.
La poetessa ha sposato dentro di sè questa lingua, e ha dovuto amare chi la parlava, ritrovare un terreno d'affezione ampia e non certo da scrittoio: seguendo i versi si cammina dall'alto del paese al borgo marinaro, poi lungo l' Albula, fino alle dimore contadine dove ci si spinge per la vendemmia o la mietitura, i piccoli cottimi delle fantèlle. Quello che arriva sulla pagina è il segno di un ascolto innamorato, complice, e del piacere sincero della sua scrittura, senza l'ombra invasiva del documento, dello scoop letterario, ma reperimento di cose vissute, snocciolate, viso a viso col paese per giorni, stagioni. Senza questa disposizione disinteressata, la città che ci parla dalle strette del sonetto scivolerebbe nel quadretto di genere, che pure talvolta si rischia, ma non manca mai il colpo d'ala che fa di una semplice dedicatoria una fervida canzone.
E' con questi occhi che Bice Piacentini guarda mentre partecipa a un momento della storia che ci riguarda ancora oggi: tutto l'andirivieni della contesa per esistere, vivere, sopravvivere sull'onda di una passione forte, forse "non vita, ma sopravvivenza, forse più vera della vita" diceva Pasolini del minuto disporsi dell'esistenza nelle borgate romane. Anche qui il sopravvivere è significarsi liberando voci, recuperando grida a una civiltà senza mediazioni altre che una dignità profonda che lascia senza frondosità, minime le sue parole.
Quella che percorre il borgo è questa lingua ritmata dal di dentro, piegata all'ultimo motto, a delle sintesi sorprendenti in cui il verso si smorza o si tronca coincidendo col ritmo della voce popolare evocata: non sappiamo dove finisce la testimonianza e dove comincia la creazione. Questo limite resta sfumato e oscillante, come un pendolo che segna ore nella stanza chiusa della memoria letteraria per poi smentirsi nella dimora del fare-la-poesia.
Non vedo immagini femminili esemplari o esemplificative, piuttosto figure dell'evocazione, percorse dalla passione a cui ho accennato che le affronta nello stesso vortice creativo.
E' importante non cadere nell'abbaglio del bozzetto: si perde di vista la coralità del narrato e lo spunto fondamentale che non è il ritratto, lo sguardo atteso a carpire delle situazioni.
Questo libro ha un senso se lo si legge vivendolo, reimparandone la lingua e da essa risalendo al corpo vivo che essa ha toccato intingendovisi, come si fa con le mani in un antico piatto familiare.
La Piacentini aveva davanti a sé un'umanità sicuramente irredenta, e per questo fiera di un'alta origine persa e ritrovata nella notte del mare, e questo linguaggio passionale, domestico e feroce ne era il minuto riscatto, perché non conosceva ipocrisia.
L'averlo raccolto, consegnato alla cornice d'oro del sonetto che si frastaglia in lamelle continue, è quanto basta per uscire dalla polvere degli anni, delle catalogazioni, anche da questo mio approccio. Non è poca cosa raccogliere una parola violenta o un sospiro o il volto, ritrarlo, di chi ha visto il suo delitto, senza dargli altra forma che un verso. Chissà quale confidenza precedeva questa "pesca miracolosa" delle voci essenziali, delle preghiere, delle assurdità, dei pettegolezzi, dei deliri che navigano nei versi come pesci nel fondale, più vivi ancora per una salute contagiosa che invade la casa di questa signora e la piega a raccogliersi sulle sue essenze di voce e vita senza calcolo.
La voce di Bice Piacentini s'immerge fin dall'inizio in un coro di voci di donna: dopo la cantata dedicata a San Benedetto paese ffatturate con l'evocazione della sua bellezza riflessa nel cielo e nel mare, lo sguardo si sposta su una delle poche figure maschili del libro: lu marenare.
Ma a finire sulle sue labbra è un paragone importante che chiude il sonetto: il mare bberbò e 'ngannatore scivola nei versi comme fusce 'na donna trista e bbelle - che te turmente, che te fa suffrì - e ppù te 'ncante 'che 'na resatélle.
Colpisce l'accostamento mare - amore. Qui i lineamenti cangianti del sentimento sono appaiati al morso e al sorriso della natura: la donna può dare anche il male, ma il suo bene fa scordare ogni cosa, anzi può "incantare", sospendere il pensiero altrove, fuori dalla vicenda quotidiana. E' trista e belle come un'amante, e tormenta perché può non corrispondere, non è docile, sfugge, è l'eterna innamorata, l'amorosa che troveremo ancora in questo libro: una figura dell'immaginario colto e di quello popolare.
L'amore è sempre visto qui nella sua pratica di incontro minacciato da una sorte mutevole, discusso sempre e come in balia di una corona di avvenimenti, fati, anche dentro il matrimonio; la pasciò sempre presente come una marcia quotidiana a tentare il terreno della vita. Non bastano le lotte per il pane: il cuore di chi vive questo paese ' ffatturate ha a che fare coi sentimenti e la loro magia, bianca o nera.
Emerge subito, cioè, la stoffa densa di un vissuto non indifferente, essenziale ed esistenziale per forza di cose, lontano dalle tinte medie, affacciato alla vita e in essa disceso conoscendone le rotte traverse e i sorrisi incantatori, come fosse ben chiara nel paese questa possibilità di una malia che scavalca le cose, mescolata ai colori - sapori del luogo, alle origini di un'umanità sovrana e sottomessa, povera e magnanima. Mi sembra di riconoscervi un "amor fati" tipico della gente di mare: il sapersi stretti all'elemento "tristo e bello" e il praticarlo qualunque sia la sorte, perché l'oro che dona, come il sorriso della donna, vale la pena cercarlo e magari vederlo scomparire nel fato triste.
Si può parlare di una sorta di matriarcato per questo libro che inquadra donne di ogni tipo e vede gli uomini sullo sfondo, alle prese col mare e coi ritorni più o meno rari mentre la donna vive una leggenda a parte, quasi un linguaggio di sua stretta appartenenza che esclude le terminologie maschili per squadernarsi in una leggenda personale che riguarda "lei" nella sua passione di madre e d'innamorata innanzitutto.
Niente dice come e perché di questa scelta della Piacentini. Probabilmente, la frequentazione del borgo deve essere stata un dialogo con le popolane, ma i vari ritratti vanno ben oltre questa definizione delle circostanze. La donna forse è preferita perché affine e probabilmente vivente una sottomissione al destino più forte di quella dell'uomo, e certo più raggiungibile nella voce.
La stessa parola femminile fa intuire una società maschile di tono più solitario, meno vario e complice, senza dubbio frequentante un mondo a parte, proprio come sulla spiaggia, dove a un certo punto del nostro secolo e della sua storia del costume turistico compaiono il "bagno" delle donne e quello degli uomini, divisione sintomatica di una condizione sociale esistente nel borgo: gli uomini sulle paranze e le lancette per giorni e mesi e le donne a raggiungerli all'arrivo, con le vesti ampie e i larghi fazzoletti, castigate e insieme potenti: così dovevano essere quelle popolane nel tessere il loro filo d'Arianna, nello scorgere dall'alto della Rocca i ritorni e rifluire sulla spiaggia, a sciami siglando la fine del viaggio.
E pure annodavano i capi della famiglia anch'essa quasi inimmaginabile ai nostri giorni, sicuramente dal doppio volto: quello che copre e nutre la femminilità, espressa dalla maternità quasi devastante e quello che minaccia e devasta: la lontananza dal marito o le sue infedeltà di varia natura, le morti in mare di figli o dei padri, la povertà vissuta soprattutto nell'inverno, quando nevica dentro le case mal riparate.
Bice Piacentini ha conosciuto questo mareggiare continuo della sorte delle donne sambenedettesi, accanto al loro ridere e sorridere.
Che bbòtte grosse ! ... Fije, 'ngenecchiò! Su, Leviggì', pica la mancèlette; recetème pe' bbabbe le graziò' ... Madònne de l'Ajute bbenedètte, nen jè levà'lu patre a 'schj frechì' !
Il primo pensiero dunque è quello dei figli e si indovina in queste parole un legame con l'uomo fatto di consapevole indipendenza, di una specie, appunto, di matriarcale distacco.
La storia vissuta tra le pareti domestiche a contatto coi figli e nella strada è ben altro mare che le donne conoscono, fatto della sostanza dell'attesa che è poi la vera storia di queste donne: di un "sentimento dell'attesa" si può parlare in mezzo a tutte le vicende, i sogni, le risse del borgo. [...]
Sotto le vesti lunghe e i fazzolettoni delle marinare si indovinano quei corpi non domati che da questo sogno d'essere d'altri: filtro, esistenza, nutrimento. Quello che oggi chiamiamo amore materno qui si pronuncia in un altro modo, in una voce che vorremmo poter ricordare. Quello che ci sorprende è ancora questa voce, come queste donne vivano prolungandosi alle parole ultime, fino ad essere folli, a mentire. Nell'humus popolare abita il sogno e una fede liberamente agganciata ai miraggi. Come si esorcizza la tempesta che sbatte le lancette a pochi metri dalla riva, gettando voci da lontano, seminando preghiere come candidi esorcismi, così ci si dà al grido, al volo della speranza impossibile, senza chiudersi a niente. Cambiando le misure delle attese, le donne che abbiamo davanti costruiscono un altro pelago, un'altra rosa dei venti. Pare di immaginarle, così indomabile è il loro senso della vita, e nei silenzi della pagina si lascia soffiare questo vento del desiderio che spinge qua e là le parole dell'inconoscenza. [...]
L'ultima parte del libro si addentra in un femminile minuto, quotidiano, che ci immette nella commedia di ogni giorno, dove ogni donna si rivela abile simulatrice, mescitrice fantasiosa di vero e apparente, per difendere la propria morale privata di fronte al pubblico rispecchiamento. La parola paesana ne esce affilata, corrosiva e poetante, come sollevata da un accordo di fondo, aspra e ispiratrice.
I battibecchi, le invettive saltano in primo piano giostrando sul grande tema della necessità, avvertita come un pungolo comune che a dispetto delle evidenze, sivela del suo opposto: la mostra dell'abbondanza. Il contrasto scopre tutta la faccia di un orgoglio matronale difeso fino alla vergogna e smascherato nel suo grottesco dalle bordate di risposte.
E' il "milieu", dove la popolana sperimenta questo spericolarsi della parola e il lasciarsi andare degli umori nei vocii di bocche ingenue e pestifere, libere dal giudizio, folli nella speranza di colpire una volta per tutte e azzerare le obiezioni cancellando le contendenti pervicaci.
A gola spiegata, altro non si difende che la propria anarchia, mentre da un altro canto si motteggiano atrocemente le segnòre che vestono alla moda estrosa di quegli anni: Porte la pajarole u lu cappille ?, e così si chiude il quadro su questo taglia e cuci nudo e crudo, umanità anch'essa allo scoperto, trattenuta nei versi a perpetuare la poesia tinta di queste rutilanti sferzate senza le quali il volto delle donne mancherebbe di un colore essenziale.
Avevamo bisogno di questi dispetti verbali per mettere a fuoco ancora meglio l'humus specifico e insieme l'atemporalità di queste figure nella loro vita breve per la storia.
E per concludere che qui non può esistere un "concetto" di donna, ma solo una forma libera nel tempo registrata senza che la mano dell'Autrice si sporga a commentare: semmai ad ambientare, nei preludi di alcuni sonetti un habitat ancora dolce sotto il profilo della natura, docile ai sogni, alle visioni, ai fantasmi che si dispongono accanto alle voci spiegate.
La giubbetta nòve
Traduzione del prof. Tito Pasqualetti
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