Enrica Loggi
LA PESCA A VELA: QUASI UN FILM D’EPOCA
Saggio sulla marineria sambenedettese pubblicato in "Ruralità e marineria, Maroni Editore, 1993.
Prima che nascesse il porto, il litorale deserto e scabro vedeva poggiate sull’arenile piatto le sagome antiche, scure nei bianchi e neri delle foto, di grossi barconi o vascelli esili, con le vele vuote di vento : presenze e ricordi, mitologiche e quotidiane le paranze e le lancette, come grosse madonne da trascinare in una processione di silenzio, monumenti del borgo “picciolo” che era allora San Benedetto.
Mute, parlano la lingua della fatica e del riposo da essa, creature occhieggianti attraverso i fori di cubìa e sostano: pare che debbano scuotere per un sì o per un no il loro capo velato, sì e no al perdurare della vita, alla continuità del guadagno, alla sopravvivenza.
Il teatro della pesca, la grande pesca delle paranze e quella minore delle lancette, è il largo quadrato di mare che tocca Civitanova, Ancona e poi Giulianova, Pescara nei bassi e negli alti fondali, in primavera e d’estate più che d’inverno, in cui pure il mare si tenta, con ritmi assai differenti.
D’inverno, le barche si proteggevano a volte interrandole dentro la sabbia, e il lavoro era poco.
La marcia dentro l’acqua cominciava a forza di remi: gli scafi lasciavano caracollando la costa dopo aver smarrate lu ferre, levata l’ancora. Nella paranza era questo il compito del morè, il ragazzino imbarcato in età scolare per le necessità della famiglia e che cominciava così, per sudore e per gioco, la vita di mare. Più tardi sarebbe diventato bardasciò, adolescente che si affrancava lentamente dal ruolo di mozzo, poi juvenette, già con qualche pratica specifica di navigazione fino a prendere le sembianze “apollinee” di juvanotte: figura di ruolo molteplice, esorcista di rischiose imminenze: si calava nudo in mezzo agli ultimi flutti della costa a ormeggiare la barca nel tempo cattivo, a “ragionare” con il mare grosso imbracciando la cima che reggeva lo scafo e attorcigliandola al legno che aveva d’un colpo affossato dentro la sabbia, lu ciucche, e giostrava a dritta e a rovescia finchè non aveva fatto ragionare anche la barca, riducendola a perpendicolo in faccia alla costa.
Così, dal ferro smarrato dal morè alla partenza, all’ormeggio fortunoso de lu juvanotte, si disegnava a volte il magro percorso della paranza, dopo un viaggio breve o brevissimo, che destinava un rientro più rapido ancora non appena, preso l’alto, i venti contrari forzavano a precipizio la rotta verso la terra e la perdita: l’incaglio temuto del legno nella sabbia del litorale diventato matrigno, e poi il dover scaricarlo e trascinarlo come un infermo su grosse pertiche di legno, come grucce, al riparo.
Più di una volta così, ma la barca dalla chiglia panciuta fasciata di legno di quercia, occhieggiava attraverso le excubiae, quei due fori rotondi alla prua, e il ferro poteva levarlo all’aprirsi promettente del tempo: remava al largo veloce drizzando l’antenna alla vela, e poi nell’acqua già alta calando il timone; si reimbarcavano i remi per fidare soltanto nel vento, che gonfiava la vela latina rivelandone al sole i draghi disegnati, le stelle marine, le lune, i simboli sacri e profani.
Il destino lo si conosceva imparandolo volta per volta, previsto il sudore: si sapeva a memoria come impattare col vento, sviarne giostrando di vela, beffarlo o fuggire verso un varco più mite, o imboccandolo dritto quando portava dove voleva il timone, nel fiuto della bonaccia. Passione modesta, grande quanto la necessità.
Navigavano a due, le paranze: la maggiore e la seconda, la sottoparanza, “gemella”: il triangolo scuro del “ventame” le distingueva alla sommità della vela. Comandavano i rispettivi Parò.
La lunga tartana, la rete,la trascinavano a due reggendone i capi nell’avventura o nella ventura di pesca. Se avesse viaggiato una barca da sola, la rete l’avrebbe inghiottita come un grosso pesce di legno, o avrebbe dovuto avanzare di traverso, come ebbra.
Il Parò conosceva i fondali e gl’incroci dei venti, quelli veri e quelli “falsi”, che muovevano il mare come fantasmi, vorticando da un punto invisibile. Scandagliava il fondo marino calandovi palle di piombo sostenute da corde lunghe o lunghissime e toccando alto o basso tirava a bordo attraverso le tacche del piombo la sabbia. A Civitanova il colore era uno e così pure la consistenza, a Pescara era già un’altra cosa: poteva affiorare del fango, allora lo si assaggiava per orientarsi rispetto alla terra di notte e sapere se il tratto di mare era adatto alla pesca.
Si sapeva del mare attraverso le braccia, lo conosceva la pelle dal vento e dalle raucedini del tempo, e tutto il corpo ne aveva esperienza dai sussulti della barca, che inghiottiva acqua dalle commessure e si doveva vuotarla, trattarla come una compagna delicata e difficile, generosa o neghittosa quando non traditrice.
Una lunga sapienza prevedeva l’imprevedibile e riconosceva la notte, affrontata anche lei nella sorta di un ultimo compito, con alle spalle magari una barca incagliata, rovesciata, con gli uomini in acqua per i colpi di vento o le bordate delle onde, dopo che ritti sui remi tentando di salvare il legno umiliato dalla tempesta avevano ceduto al naufragio e sempre, nella buriana totale, qualcuno reggeva il fiato alla vita dandosi la pena di scaricare sulla spiaggia calamitosa, straniera, il pesce per poi fare ritorno agl’infermi ed ai morti.
Nel compito a misura o a dismisura delle loro forze, i marinai di San Benedetto ripigliavano la fateje, mentre il borgo si vestiva a lutto: di notte tutto l’incasato lo percorrevano gli urli, e il giorno dopo l’avevano tutti, il vestito di nero, e non si riconosceva più chi aveva perduto qualcuno da chi lo piangeva solamente per amico, o compagno di fatica. Nel “buon tempo” il ventre della paranza è il ricetto di quest’umile vita e della sua potente affezione: due grosse navate scandite dalla base dell’albero e dal tronco della bitta che in coperta ormeggiava cordame alla bisogna. Assiepati a prua il gran fascio del cordame e a poppa il viluppo delle reti, e poi canapi, sugheri, collane di verricelli, un lume e lu ciucche, un tronco d’emergenza, quasi un totem, e il ponderoso timone di riserva: presenze maiuscole parallele al peso dell’ancora o a quello della spera di ferro, che si calava in mare a piombo per bilanciare il vento che andava a rotta di collo.
I marinai si muovevano in mezzo a tali familiari possanze: un modesto pajarecce li ospitava per il sonno e potevano starci in dieci, qualcuno a vegliare sul ponte. La luce veniva dal rettangolo del boccaporto, da dove usciva anche il fumo de lu fcò, la fornacetta di legno che cucinava il rudimentale vredette condito dalle vicciaiate, le ciambelle portate da casa, sei a testa per un giorno.
Tutto questo calava nell’acqua malfermo, alla mercè dell’umore marino incostante.
In coperta, il gran “delta” del timone: legno e chiodame sul legno, e l’albero lungo quanto la barca, bloccato al sartiame e paraventato nella veste fluttuante della vela appiccata all’antenna diritta.
Ogni angolo lo si bazzicava calmi, apprensivi o frenetici, a seconda che urgesse uno dei “pezzi” o semplicemente si avesse la fame di una ciambella.
Ed esiste, nei giorni del mare, un umore giocondo di parò o marinaio, che conosce i proverbi e dà le scapezzate ai morè, e della sua mobile sorte che rolla nell’acqua sa sorridere e ridere a bocca chiusa; perché in fondo questa grossa briga l’ha voluta per sé, come un’altra donna a cui tirare o lisciare i capelli, o un compagno per il braccio di ferro, o paternità avita e antica di cui sente addosso il responsabile onore.
Rispettavano tutti il Parò, sulla barca e nel borgo. Taceva e sapeva dare buoni consigli. S’era accollata la barca con tutta la pesca: ne era il padrone anche quando non la possedeva di fatto; gli obbedivano senza volergli “passare davanti”, accompagnavano con la fatica la sua “solitudine” e se ne ispiravano.
Conoscevano tutti questa “santità” della vita, naturale come il colore ormai inciso sui volti e le poche parole.
Accanto a quattro marinai semplici c’erano i morè, che pulivano insieme ai loro secondi, i morenette, la barca prestandosi a tutto:il nome parla di capelli neri, e incarnato scuro; avevano il cuore già pronto all’orologio del rischio, apprendevano cose dai troppo più grandi e insegnavano forse quel loro sorriso ostinato, costante. Non c’erano, a bordo, rapporti “verghiani”, ma l’umorosa cordialità, un rude mutuarsi nel temperamento senza acredini, punte, la spontanea collegialità nel comune misurato interesse e il talento di viversi le ristrettezze senza inquietarsene, magari spiegandosi in un faceto e semplice “andante”.
E poi esisteva il legame misterioso della conoscenza lontana, complice, che ognuno aveva dell’altro: per vicinanza, per consonanza, per silenzio.
Nel mare che taceva o dormiva o turbinava la voce degli uomini è un “elemento” anch’essa, e parla come il calare della vela o il cigolare dell’argano, il timone che scende nell’acqua e la barra che lo muove, come un ritmo contrappuntato dal silenzio, asciutto, salino. E così s’alzano i gridi al tradire del vento, e ugualmente ci si rimette al malestro della temperie.
I quindici giorni trascorsi al largo, più volte nell’anno, scolpivano un uomo e lo struggeva la terra, la donna, i figli.
La calata della rete era l’evento: la trappola tesa al pesce nel fondale che il Parò aveva scelto era un rito possente, irrevocabile e mite, astuto nel calibro dei ritmi misurati, lenti, lentissimi, fulminei, addirittura selvaggi, quando il vento torceva la faccia e bisognava sfidarlo.
La rete che discendeva nel mare fermava il tempo riportando sé e l’uomo a storie più antiche trasmesse attraverso le braccia, nel fiuto dell’elemento marino e in tutto il bisogno di sconfessare la paura ed il rischio davanti a un trionfo di creature guizzanti sulla tolda. Quando il grande sacco ricolmo veniva issato in coperta e rovesciato sul ponte, la fateje si scordava di fronte a tutto quel dimenarsi e rosseggiare in lampi d’argento del pesce pescato.
Si calava nel mare la tartana, un lungo sacco smilzo ai lati che si prolungavano ai labani (lebbà), corde che proseguivano attorte a due assi orizzontali, le “mazze”, fino alle reste, lunghissime e arrotolate nel covo della chiglia: tutto un gioco di canape,più larghe, più strette, per un’altra grande presenza, la più importante, nel senso di tutto.
Da un punto preciso vicino al boccaporto il marinaio srotolava la resta in un movimento accurato, come un incantamento di serpente, perché non si impicciasse, e questo si chiamava senà, suonare: un ritmo, un silenzio specifico e il ronzio della corda rimossa.
Scendevano dunque i labani in mare, guidando il sacco che scivolava nell’acqua e poi sprofondava lentamente ondeggiando come se avesse una mente nascosta: le funi pendevano sempre più a piombo, per un numero grande di “passi” che sono una misura peschereccia antica e anche il passo del calarcisi, in mare, anche senza la rete.
Tutto questo accadeva mentre le barche gemelle s’allontanavano una dall’altra descrivendo il luogo della “chance” con il movimento minimo di una danza, e lasciando alla rete sparita un solco di mare di cento, centocinquanta metri.
L’ultimo tratto della resta è passato attraverso le mani del bardasciò, de lu juvanotte: la rete ha toccato. S’incolla alla sabbia col piombo che ne appesantisce la parte di sotto, mentre in alto la sua fauce si apre sollevata da bordure di sugheri.
Il fondale è sconvolto dalla comparsa dell’ordigno di canapa: i pesci, snidati e confusi dal sabbiame che si snuvola sotto di loro, finiscono dritti nella grande bocca. Scatta la lesca, un’altra tessitura interna che chiude l’imboccatura impedendo alla preda di fuggire. E’ fatta. Dall’alto della barca, si sentono pesare le reste a precipizio. Non si aspetta più. La danza ricomincia e il braccio di mare si chiude, come un sipario :le barche si sono ravvicinate in parallelo, divise solo da una lingua d’acqua per cui si procede, ad argani e braccia, a tirare la tartana a bordo : è la nzaccata.
Il marinaio della chiglia “suona” la resta che rientra. Il sacco affiora dall’acqua, e pesa forse un quintale: gronda. Si moltiplicano, a issarlo, le mani: un runciglio lo chiude perché niente si perda nella manovra, e poi l’ultimo sforzo e il tonfo sulla coperta.
E’ intatto, gonfio; lo squadernano sopra la tolda, lo spettacolo porta via gli occhi.
E qui, parole che mai le sapremo, e la gioia che presto affaccenda. Ci si mette a capare le specialità ed è un lungo lavoro, con tutto quel pesce : il mare ha risposto. Gli sgombri, i merluzzi riempiono i panieri (le coffe), e sopra vi si cuce un panno chiaro con impresso il simbolo della vela, come una firma.
Il gran daffare e prestarsi su e giù per la barca, mentre la rete asciuga sfinita al sole, come fosse il più grosso dei pesci, è una ritmica allegra che sa già di ritorno, di pane, di vanteria per le strade del borgo.
L’evento rinasce, più volte nel giorno, si riproduce in attesa, febbre, lavoro. Le coffe riposano a turno dentro la chiglia.
Lu sbarzucche, specie di fattorino del mare, in un barchetto malsicuro d’inverno, fa la spola tra terra e acqua alta: scarica viveri sulla paranza e imbarca pesce da vendere. E’ un segnale di continuità, quasi una piccola ancora vagante.
Verso le tre del mattino, passava un marinaio a bussare alle porte delle case dei lancettieri, e diceva: jè ore. Ora di lasciare il sonno e raggiungere la barca, che aspettava dal pomeriggio, ormeggiata a due ancore e piccola come il suo nome.
Lu Papagnutte era una lancia più grande, con la prua fortemente bombata e gli “occhi” vicini vicini cerchiati di rosso o di giallo : col tempo non ce ne furono più, forse difficili da manovrare, e le lance rimpicciolirono a 11, 7 metri, “lancettucce” colorate anch’esse, piatte nella carena battente l’onda bassa dell’Adriatico. Lo scafo, rispetto alla vela imponente, quasi non esisteva: un metro e trenta d’altezza e ci si abitava ben poco, camminando chinati e sedendo o sdraiati per forza.
I marenare vivevano quasi sempre in coperta, allungandovisi con la “giacchetta” per cuscino. Non scivolavano, sull’impiantito mischiato di sabbia e catrame che l’acqua non raggiungeva, schermata dagli alti aggetti di poppa e di prua.
Per minima che fosse, la lancia, robusta da tutte le parti, non beccheggiava e col vento portante filava da sola. Partivano in tre, o quattro, il Parò e i marenare, qualche volta il morè, a notte alta con un po’ di provviste in un fazzolettone, attraversando il borgo insonnato. La veglia così cominciava.
nello sciaguattio della riva, avevano sciolto la barca dai ferre di poppa e di prora. Per la strada, ascoltavano il vento che avevano visto la sera prima, e dalle nuvole andanti o tornanti dal largo sapevano com’era il mare, dal sole al tramonto se sporco di cirri o “pulito”, dalla luna cerchiata sì o no, e il volo di rondini basso o più alto, e i gabbiani, e se infine saltavano i pesci dell’ultimo tratto di costa ed, al largo, i delfini.
Vicino alla riva, un solo lungo remo vogava, come in una canoa, poi quattro pertiche uscivano per quattro fori davanti e di dietro e menavano al largo mentre alitavano i venti di terra e di mare, buoni anche per il rientro. Da San Benedetto non si andava più su di Tesino, o al massimo a Porto San Giorgio, e se si cercava altrove, era solo fino a Tortoreto, passando per la bocca del Tronto e il suo slargo e spessissimo fermandosi lì, dove il vento era propizio e il pesce abbondante.
Il primo a seguire la lancia era il vento di terra: soffiava costante fino al mattino e lei gli porgeva la vela gigante, inclinata tutta su un verso come la testa di un grosso animale da traino. Sembrava persa nel vento, così appassionata, dismemore, e invece una bussola c’era, nella sproporzione apparente tra il legno quasi invisibile e la tela olona tutta distesa: di vento, andava a inseguirne un altro: quello che poi l’avrebbe fatta tornare la sera.
Si partiva dando di “terzarola”: ridotto di un terzo il largo trapezio a due antenne e sguainata la piccola randa, lasciando che il simbolo dipinto in alto a colori vivaci fosse visibile da molto lontano, come un blasone: era un cerchio rossastro, una ruota, una bestia rampante o le semplici iniziali di un nome e cognome. S’incrociavano al largo le lance festando nei loro “colori”; le vedevano bene da terra quand’erano ancora lontane al rientro, dal rosso e dal giallo di sotto al ventame, che poteva recare nel caso una striscia di lutto. Il vento padrone impediva il viraggio di prua senza remi e senza un’ardua marcia all’indietro e la vela tenuta a collo a forza di braccia. Si governava così,”dribblando” coi soffi che trascoloravano dritti e traversi a San Giorgio come a Tesino, alla bocca del Tronto.
Libeccio e Ponente mettevano addosso paura, soffiando veloci da terra, e così qualche colpo improvviso di Bora che arruffava il mare di botto. Le libecciate che marciavano da lontano tenevano in scacco la lancia lungo la costa su e giù a randeggiare: allora buttava le ancore in mare sperando tenessero loro o fosse il vento a crollare. Bora e Levante non c’era verso che la riportassero a casa; allora con la vela ammainata, il timone che non serviva più a niente, le onde la castigavano fino alla spiaggia, battendo sul guscio senza per questo riuscire a spezzarlo. Si poteva imboccare il porto anche in groppa alla barca capovolta, la vela a brandelli, ma senza affondare.
Il vento giusto girava alla pari col sole, come fa sempre, ma chiaro era il semicerchio entro cui si muoveva armonicamente la lancia, tra l’uscita e il rientro. Era il suo ameno cammino di piccola sabotatrice, astuta, prensile, avventuriera di un giorno.
Maestrale e Scirocco portavano l’uno in su verso Tesino e l’altro verso Tronto. Ci si affidava: Maestrale lo riconoscevano dal cielo di poche stelle, con Scirocco invece era una luminaria, ma a volte il vento era “falso”, seccava in una bonaccia. Nel mare peggio di un lago non si poteva calare né disincagliarsi; si aspettava per ore straniti, tristi, una bava di vento di cui potersi fidare: e a volte veniva Scirocco in persona a rovesciare le sorti; scioglieva dalla prigione e menava in giù, in una rotta all’inverso, lontano dalla bonaccia morta, portando magari a pescare. L’umore semplice del marinaio ridiventava allegro: la piccola preda cercata era a segno; la giornata era salva.
Affidarsi ai difficili umori del tempo e alla sua autorità capricciosa per un percorso minimo, una vita penata così e non certo florida, stentare giornata a volte per poco guadagno: questa era la sproporzione che barcamenava, proprio come la vela grande e il piccolo scafo, l’esistenza del lancettiere.
Aveva scelto di tenersi accosto alla terra, come un praticante del mare che invece è un maestro anche lui, ma che taglia dal conto il soverchio del rischio.
La sua piccola astuzia la paga con la povertà e con essa si batte e insieme la tiene a braccio come un calmiere di vita che è il volto conosciuto, praticato dei figli che mangiano noci e patate, la tavola dove si beve acqua e aceto “perché il vino non si poteva comprare”,la donna che ha aspettato per ore sull’orlo del mare a curare il mercato.
La prima calata di rete avveniva di notte, nell’alto, prossimi all’alba: il terreno di pesca imbroccato vedeva frenare la barca, incantare il vento arrotolando la vela per muoversi al minimo. Bastava già per sollevare su dalla chiglia le maglie della tartana o del carpa sfoglie, che erano tante: il sacco ad imbuto con la lème d’piomme, il supporto pesante che la incollava sul fondo, e la lème d’sure, il sughero che la levava in alto divaricando l’imbocco del sacco, come per la paranza. Ma la lancia leggera durava molto più di fatica ad amministrare lo strascico.
Per incantarlo che si volesse cercando il necessario equilibrio, il vento tirava la barca che a sua volta tirava la rete pesante, appiombata sul fondo perché rastrellava anche fango, e cresceva di peso man mano che s’inghiottivano i soffi, frenando finchè si poteva. Il vento e la rete giocavano un tiro alla fune, e la barca nel mezzo, a reggere entrambe le sorti.
Se poi vento non c’era, si dava nei remi e la rete la si trascinava passo su passo, finchè non s’avvertiva che il peso passava le forze. Poteva non esserci il pesce, al momento dell’insaccata: i delfini furbissimi brucavano il sacco di canapa facendo sparire la preda, e il lancettiere dopo ore di calata tranquilla o fortunosa, tirava su solo la rete, stracciata in più parti e vuota completamente.
La sua delusione era enorme. Eppure il delfino lo conosceva, e sapeva anche come evitarlo, ma la bestia furbissima andava a pescare, di dieci lancette, proprio quella che aveva calato la rete; si saziava e scappava sul fondo: il sacco era perso con la giornata.
Sul fondo giacevano anche le cosiddette presure: relitti di guerra che dopo lo sfollamento angustiarono i lancettieri tornati a pescare. La rete imbarcava di tutto, e l’ordigno pesava a tirarlo in coperta; spaccando del tutto la custodia robusta la dava per persa. Il morè li teneva segnati, i luoghi delle presure, su una mappa a occhio e croce che spiava la terraferma regolandosi sulla misura del “passo”, sapendo così che all’altezza del Monte Bruciccio o di Menocchia, dal largo, indovinato il livello del mare e la linea ideale verso la terra, la presura era lì.
Quando la rete era piena, la barca lontana da lei fino a cento e più metri, virava fino a raggiungerla, coi remi per contraddire la direzione del vento, che se era troppo forte, aveva obbligato già tutti a rimetterla a bordo aspettando una nuova calata. Raggiunta, la si tirava completamente a mano, ed era gravosa, di pesce e di fango.
Non si arriva ad immaginarla, questa manovra spossante: gli uomini erano in fondo non più di quattro, e a bordo arrivavano prima i parà, i vracce, le prime corde su cui si faceva leva tastando poi a gradi le mazze e rovesciando man mano in coperta, risucchiando pezzo per pezzo le lunghe volute dei canapi fino alla borsa, che si issava sul ponte in uno sforzo molteplice, ultimo. Sfiniti, gli uomini aprivano il grosso velario guardandosi il pesce vivo che si ribellava e alla fine taceva nei panieri, fino alla nuova pescata.
Dopo il meriggio si riprende la strada di casa, a meno che il vento non faccia lo scherzo di sbattere in qualche altro posto, su una spiaggia frastire, e allora hai voglia a tornare a San Benedetto! Ti tocca ormeggiare, aspettare dentro lo scafo magari una notte, e all’alba augurarti che il vento sia d’accordo con te, oppure bisticci di vela o di randa pazientando o infuriandoti.
Sammenedètte t’aspetta, è il tuo letto di sfoglie.
Le donne, tua madre, tua moglie ti spiano a riva da lungi, facendo solecchio con la mano sopra la fronte. E ti vedono ! E’ tua quella vela,la vela del Gallo, che era andato a cantare lontano per tutta una notte.
Ripigli casa in silenzio, mentre le donne accaparrano i cesti più o meno magri, e di quella molle abbondanza fanno uno spiccio commercio, dando di voce.
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