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31/10/12

"...A una rima di vento" : Le note critiche di Giarmando Dimarti


Dall'incontro alla Galleria Opus di Grottammare, il 27 ottobre:


[...] Farsi natura: in ciò consiste la testimonianza profonda di questi versi. O meglio: farsi natura inerme, senza il suo apparato di splendore e di bellezza e proclamare egualmente la sua ragione di vita in tutto ciò che si è perso, in tutto ciò che è caduco. Non siamo di fronte alla lamentazione de Le feuilles mortes di Jacques Prévert, del disvestimento fogliare come tensione di morte o di nostalgia,  ma siamo piuttosto di fronte alla ruralità pura di Pablo Neruda delle Odi elementari depurate di ogni sentore di “volontà di incanto”. Qui si cammina tra radici e slanci, tra il tutto ed il niente, tra l’ordine e l’infinito, e l’esistere è un riverbero minimale su frantumazioni ed elemosine. Enrica vuol proclamare, dalla sua misura onesta e riservata, concretamente vissuta, tutto l’entusiasmo creaturale di chi si sente partecipe, più che panicamente, possiamo dire virgilianamente, – si sente con forza palpitare infatti quella tensione classicista pre-cristiana come attesa di una rivelazione nuova, inconosciuta – di una natura che è condizione fondamentale dell’uomo. Da essa l’uomo ritrova il frammento cosmologico che lo ha prodotto per farlo sentire universo insieme agli altri, nonostante l’indifferenza degli altri. In questa marginalità c’è l’abisso dell’umano che si colma nella consapevolezza di essere e di “risplendere” anche di luce riflessa. In questa saggezza risiede il culmine teorico di tale poetica. [...]

[...] In questa poetica della mediocritas, cioè mediana, lontana da ogni estremo sensazionale e sentimentale, troviamo tra i diversi topoi come: l’albero, il mare, la città, la natura, la luce, il buio, quello delle stagioni. Noi ci aspetteremmo che in una tonalità pacata, che mantiene però sempre la sua vivezza, le stagioni che meglio rappresentano questo status fossero la primavera e l’autunno: le stagioni di passaggio, per intenderci, nella nomenclatura poetica ufficiale (anche se siamo in presenza di forti cambiamenti). Invece, a sorpresa, a prevalere sono le stagioni apicali del caldo e del freddo: l’estate e l’inverno. E con una dimidiazione quasi esemplare: è l’estate a prevalere nella prima parte, come pensamento e sorpresa (l’estate padrona di me, p. 25; la stagione che incede e che ci ingombra, p. 27), come insofferenza ( le mattine / dal traffico violento, p. 31), come estenuazione dell’esistere ( e l’estate cammina sugli asfalti bagnati / abdica dal paese col suo vecchio fuoco, p. 32).
Nella seconda parte trionfa l’inverno quasi come stagione esclusiva, traghettato, talvolta, da un autunno veloce, trascoloro, vibrante di voci cangianti, bisbigliate appena. Si respira nei versi di questa sezione una atmosfera vivaldiana, soprattutto un senso forte di raccoglimento come è prodotto dal secondo tempo dell’opera musicale omonima: il Largo, e in certi passaggi misurati dell’Allegro non molto (primo tempo) e all’Allegro (terzo tempo). È il tempo sopravvenuto della sospensione, dell’accestire nascosto, della vita altra che pulsa segreta sotto l’apparente mortificazione, sotto una uniformità che non si traduce in omologazione. È il momento dell’appartenenza intima, dove tutto si rigenera in un trionfo nascosto e duraturo. C’è bisogno, sembra dirci Enrica, semplicemente di ritrovare la nostra, ormai sempre più distratta se non usurpata, umana normalità, la nostra terrestrità costitutiva, la nostra esatta sussidiarietà. Così il baccello con i quattro semi quasi insignificanti, sottratto di proposito dall’albero ormai letargico (p.76), può essere segno pregnante di una possibile vita se ci si lascia guidare da quel senso di appartenenza humatico, precedentemente accertato, e fare un gesto semplice, per non dire ovvio: prendere i semi e metterli sotto terra (Erano solo quatto semi / in uno spicchio di terra, nel mondo, p.77). Qui si rivela l’intensità e la profondità del sentire: ogni vita vale anche nel suo assoluto anonimato, anche nella sua disarmata e disarmante probabilità. Questo vivido inverno sotterraneo allora, con cui il sentire poiematico si fonde e si rinnova, diventa la scoperta nuova, la nuova conoscenza, che interferisce e sopravanza ogni superficiale incongruenza, ogni incertezza sentita o agita, tanto da far dire al poeta in uno dei versi finali: So tutto di queste ore gelate… (p.79). E proprio in chiusura, quasi a riaffermare il proprio totale coinvolgimento, si legge, in una perentorietà epigrafica: Io sono qui, / tra il sole e la neve (p. 80).



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