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22/03/09

Poesie di Isabella Franchellucci

Sabato 21 Marzo è stato presentato al Punto Einaudi di San Benedetto del Tronto il libro di poesie "Moto convesso" (Canalini e Santoni) di Isabella Franchellucci, poetessa di Cupramarittima, autrice anche di "Frammenti circolari" (1995), "Quarta corda" (2000) e "SingolarMente" (2005).
Trascrivo due liriche di Isabella e parte del mio contributo critico alla serata.


**
percezione

Nell'autunno che incede
basso planare di stormi.
La luce si smorza
nel crepuscolo.
La terra vischiosa
dopo la pioggia
e il muschio si insinua
tra i sassi confusi nel fango.

Abbiamo abbracciato questo tempo
col tocco fuggevole
di un amore strano e ribelle.

Un voler esserci
e invece sparire
in questo viaggio apparente
nella frenesia delle cose.

Domani ti chiederò
quale passo abbiamo inseguito
in queste distanze sideree
e questo pianto antico
si scioglierà
nella percezione d'assoluto.

**

atomo essere

Uno schianto nei pensieri,
cala il sole
dietro il verde dei pioppi,
cristalli di luce
al riverbero invernale
e lo smarrirsi
delle cose.
Ore consunte
come pietre focaie,
lo strofinare delle forze
sullo sfondo
ormai in ombra.

Forse un palpito emerge
l'abbraccio di un sentire
la commossa appartenenza
ad ogni atomo di vita.

**

[...]
In questa contesa assidua vibra per la poesia la volontà di esserci e dispiegarsi, come un abito intimo ed esclusivo, che si indossa a dispetto degli oblii del mondo...
Nello svelarsi costante di questa confessione c'è la richiesta di un'altra amicizia, una domanda di felicità sottesa che non si pronuncia, ma rientra, come una luce autunnale, nella radice ineludibile dei giorni, grumo di passione che non si è sciolto, e che la poesia, antica amica a cui Isabella si affida in un abbraccio esclusivo, reca stretto e sublima nel suo corso.
Per l'energia del verso, la discrezione delle similitudini, l'incedere come in un rito silenzioso, questa poesia si fa portatrice di un annuncio tanto più prezioso quanto sommesso, fabbrica un tessuto che può vestirci, e ci invita tacitamente, sulla barca dove ognuno di noi è chiamato a stendere, come una vela, il suo sudario.

Enrica Loggi

12/03/09



lontano ha gridato
.la primula gialla
.il colore...

07/03/09

Maria Lenti: recensione a "Di acque e segni labili"



Ma che cosa c'è tra la nascita e la morte, nello spazio che chiamiamo vita? Una immensa solitudine, una ricerca continua di un "altro" e di un "oltre" che non rispondono ai richiami, un ritrarsi nel proprio vivere per una impossibile risposta alla ricerca, per un incontro che mai avviene con il mio simile, o i tanti simili che affollano e schiamazzano o fingono di vivere nella città, attorno. Allora ci si incarna nel paesaggio, nelle acque, nella natura, in quel riconoscibile alter ego del più fine sentire da cui mai sarò allontanata. Il resto sono segni labili.
Sono questi gli interrogativi e queste le presenze, almeno in parte, che Enrica Loggi, già da "Vasto era il mare" (1994) e attraverso "Il seme della pioggia" (1995), semina e lascia anche nelle ultime, stillate, poesie raccolte in "Di acque e segni Labili" : poesie del desiderio limpido di incontri mattutini e quotidiani con le albe e le lucertole, i cieli e la rondine, l'estate - "preistoria" di un sè e di quel che fu - la siepe e il vento e tutto un registro scritturale che immette dentro - scrive Guido Garufi nella prefazione - "con sapienza e consapevolezza un suo De rerum natura" per trarne un'essenza, una risposta che sia, almeno un pò, una ragione del vivere.
Altra ragione non sembra adombrarsi, se non scrutando quella "natura" e magari rintracciandovi il senso di un più, di un oltre che qui non è, non è nel passato, non è nel presente incapsulato più nei chiassi e nelle esteriorità che nelle profondità dell'essere.
Rintracciarvi forse, il senso di una presenza che è ma non esiste: questo nostro essere creature insieme alle altre creature e alle stagioni, ripetute e continue, inseguite e rimpiante, e trovare in tutto questo il senso del vivere. Non si può non concordare con Guido Garufi quando scrive: "...questa poesia che a volte accenna al canto, velandolo con pudore e mai scoprendosi in elegia totale, tenta con grande grazia e con timidezza una sua attonita colloquialità con la "foresta" georgica del suo paese, del suo orizzonte cittadino circondato dai colli, dai boschi, dagli erbari, quasi innestandosi dentro l'anima in una "justissima tellus", anima interna, anima animata."
Alla ricerca, quest'anima animata, di un senso da allargare al suo sè. Senso che sfugge, tuttavia, che non può essere detto per intero, che anzi, forse, non c'è, non c'è più, ammesso che ci sia stato, che qualcuno l'abbia scoperto, avuto, riferito, riverito, posseduto:
.......Di acque e segni labili
.......gira il giorno vuotandosi.
.......La sosta è fino alla malinconia
.......d'ocra confuso nei ponti
.......sopravvissuti all'alito
.......di città natali e straniere.
.......Accolgo le tue linee minute
.......nel palmo dove ti nascondi
.......a me che non potrei fuggire.
.......Ti chiudo, ti sorrido alla rinfusa
.......un pò soffrendo il distare
.......del cielo intatto a entrambi.
.......Ci sono ombre che non tradiscono,
.......lo sguardo non s'allontana
.......da un breve diario di parole.
Nell'ansa che si forma tra l'avvio ancora un poco speranzoso e il ritorno sullo stesso punto scorre una domanda silenziosa e muta: ma, allora, come e quando la vita si è innervata? E dove è andata a finire la nervatura?
Appartiene, questa domanda, alla poesia meno contingente e più "religiosa" ( della religione della vita ) di questo nostro secolo - per stare a qualche cosa che ci contiene ancora, nonostante i tentativi di chi insiste a dire che ce ne siamo allontanti o distaccati - : la poesia che guarda al profondo magari servendosi anche dei segni, labili, del quotidiano, del feriale, dell'intorno, di stagioni continue e variate senza scampo e senza traccia.
Non tutto è perduto. Resta il sogno. Ci si può immergere nelle sue acque, ma anche qui senza vie d'uscita:
.......Il sogno impasta nella saliva
.......rose di creta.
.......E' destino, come una culla piena di panni
.......discendere poveri all'acqua di un primo giorno.
L'illusione dura lo spazio di un mattino...che si rinnova ogni giorno: e questo è lo spazio in cui viviamo.

02/03/09

Il bianco e il nero nella folla dei giorni

Alla Galleria Marconi ( Cupramarittima ), ecco l'esito di un'esperienza fotografica di Roberto Cicchinè e il mio commento.

Nell'intrico dei rami
nel fitto d'erba scura
tutto è già accaduto ma diviene ancora
come la terra e il cielo
il bianco e il nero nella folla dei giorni.

[...]
Bianco e nero intercettano i colori, si fanno ventaglio e schermo di storie, di accadimenti, sono come un sipario.
Vi immaginiamo il colore dei sottoboschi, e nidi, pagliuzze intrecciate a dare ospitalità a creature dell'erba, dove non penetrano che le gocce di pioggia o lo sfiorire della neve.
Leggiamo queste "siepi" pensando al loro miraggio nell'occhio dell'artista, al suo cammino per arrivare a questa sintesi folgorante, che è l'ipotesi audace del tempo di un duello leggendario di luce e d'ombra.
Man mano vi si alza il calore di una suspence, un'atmosfera, in un imperversare di fenomeni che rimandano a una memoria, alla necessità di cercare, nelle cose, un dato inconfutabile, una parola assoluta, il dono di un alfabeto, che è il divenire di quest'analisi carica d'entusiasmo e densa di futuro.

Enrica Loggi