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07/05/17

Dedicato a Cecilia Dionisi



L’arte di Cecilia Dionisi si fa incontrare senza preamboli, è presente, nuda, immanente a se stessa e a chi la guarda, perché uno solo è il suo accento, come universale è la poesia dei suoi quadri, che in una appassionata melodia ci immettono direttamente, felicemente nel cuore delle cose.
Un mondo dove il colore esulta, dove l’argomento è la vita nei suoi fiori, desiderio d’infinito e insieme di pace, e dove le creature della Natura rispondono a un appello inequivocabile, chiamate a esistere su tele dalle ricchissime tonalità cromatiche, che si offrono ai nostri occhi come allo specchio di una felice fantasmagoria.
Ci sentiamo accompagnati con estrema passione in paesaggi pieni di sole, di archetipi felici che sollevano l’animo in un grazie gridato a tutto il Creato, ripetuto come tema abbagliante in una sorta di estremo sorriso, che scavalca la drammaticità per vestire lo sguardo, ogni sguardo, ogni dolore, di una bellezza sposata per intero, di una confessione librata nell’aria, di visioni, di concrete allegorie.
E’ la testimonianza di un amore che ci conquista, ci ruba piacevolmente, ritraendo una vita che la luce accende e il colore conserva come un incontro, un lascito, un saluto che nel tempo veste la tela, e la restituisce in pennellate scroscianti: una festa della luce.
Ho incontrato Cecilia alla sua mostra per la festa di Sant’Aureliano, a Grottammare. Ne sono stata felice, rapita da questa sua visione devota, umile, gioiosa e giocosa, come da una resurrezione, un canto di lode alla vita, di amore per chi può soffermarsi a contemplare, a seguire l’istinto dell’Artista e a portarlo con sé.

Enrica Loggi

18/04/17

Il colore della poesia


Le mie note a proposito della mostra "Il colore della poesia" di Emidio Mozzoni e Miriam Pasquali (in corso al Centro Pacetti di Monteprandone).




L’arte di Emidio Mozzoni è un perenne, variopinto e multiforme dialogo con il Creato: una mite protesta, che si traduce in durevole invocazione rivolta alla materia elementare (e per questo più preziosa), delle sue composizioni. Quanto viene costruito, descritto, assemblato in un atteggiamento interrogativo rivolto alla Natura, tra le spine di quanto è sofferto, torna a parlare un linguaggio d’amore. L’incredibile, direi sovrumana pazienza consiste nell’adoperare materiali minimi, raccolti tra le creature vegetali: piccoli rami, foglie, sassi amorevolmente adoperati a ricostruire un universo dove non si perda nulla, dove il lungo racconto diventa, a perdifiato, una canzone. Ciò che viene usato diventa un alfabeto a sé stante, duttile come una parola nuova, sussurrata, invocata, trascritta in una sorta di racconto biblico, dispiegata tra l’umiltà dei materiali che diventa splendore nelle foglie-oro con cui, ci dice Emidio, si celebra e festeggia la materia del suo dipingere.
L’Artista vive la sua purezza nella mite accusa fatta all’uomo che distrugge i frutti, i semi, i linguaggi, la bellezza che la Natura gli dona. La sua mano si muove insieme a una meditazione estrema, millimetrale. Il suo Tempo si traduce prezioso e umilissimo insieme.
Corona queste espressioni pittoriche, un brillio di forme che descrivono a volte dei profili di città luminosissimi, un vero Inno alla Vita che non vuole abbandonare il nostro sguardo, anzi spera di farsi essa stessa Paradiso, là più dove l’uomo è fallace.
Porto con me questa parola impressa, riscattata, innalzata in geometrie duttili e in piccoli mondi che raggiungono chi guarda con mille domande, e una risposta sola: Omnia vincit amor.

Enrica Loggi


Cara Miriam,
mi sono lasciata avvincere e trasportare dalle tue tele che ritraggono i fiori, ed altre sentinelle di una tua esclusiva, smagliante passione, trascritte con una cura da amanuense nel corpo del quadro. Il loro candore, come un soffio diafano, ha il coraggio tuo di esprimere un dato essenziale, di trascrivere il cuore dell’immagine che sembra quasi evocata magicamente, nel colore acquerello, o nel pastello che fedelmente seguono i profili delle tue “Still Life”.
In esse quasi t’immedesimi lasciando che queste creature policrome siano un tuo aereo ritratto, il tuo respiro, la tua contemplazione sincera e devota della impalpabile realtà che magicamente, proprio nella fedeltà tu trasfiguri e lasci che chi ti guarda entri segretamente e poeticamente (è così che tu ci accogli) nelle evocazioni di presenze che hanno un volto che oggi si trova raramente. E per questo si sono lasciate amare, meditandole e rispondendo al forte richiamo della Natura, della Vita, che minuziosamente raffiguri. Ma c’è in te uno slancio, un coraggio particolare: quello che trova nella semplicità la sua forza, e si ferma in un pronunciamento delicato ma stabile, vitale, nella vocazione di offrire il colore e a volte la perfezione dei temi. C’è in te quasi una risposta a una preghiera: quella che celebra l’erba dei prati, le cromie di un paesaggio raffigurato in più vesti, e di volta in volta il procedere della sua finezza, che è quella del tuo cuore, e di una fedeltà riposta nel colore a volte evanescente, come un sospiro, come la forma elementare di un sogno ad occhi aperti.

Enrica Loggi


25/03/17

Dedicato a Claudia Cundari



La felicità, la gioia rutilante delle immagini di Claudia Cundari attinge ad un paesaggio dove l’anima discorre con la centralità della materia, fatta di tinte magiche oscillanti verso un cielo che accarezza il suo infinito.
Le forme si agitano come per un vento celeste, e coprono la tela di incanti, sogni che si destano nella ininterrotta cromia e si pronunciano in accenti d’amore e tenerezza, scanditi da Claudia con mano trepida e felice.
Il paesaggio ha come centro il mondo femminile e le sue tremule malinconie, che dilatano lo sguardo di dolci creature muliebri e lo rendono permeabile ad un sogno rincorso mentre il loro io profondo langue e gioisce all’unisono.
Gli sfondi racchiudono una debordante umanità, che indirizza le immagini verso un mondo lieto e pensoso, caratterizzato da un avvicendarsi dei colori e delle forme in uno spazio guizzante e luminoso che solo il cuore della Pittrice sembra conoscere.
Da un’esperienza d’amore e dedizione vengono questi ritratti, volgono a noi un sorriso candido come neve, mobile come un giunco. Sono figure che emergono da un dettato fantastico e incoronano come umane ghirlande la superficie della tela, lasciando ai nostri occhi tutta la meraviglia, lo stupore incessante, l’incanto ripetuto ad ogni “formella” dove si svela e si rivela l’anima di Claudia mescolata alla gioia dei suoi occhi.

Enrica Loggi


06/03/17

Recensione di Maria Grazia Maiorino a "PoesiEnricaLoggi"


"Le scarpe bianche dei poeti". 

Conservo, all’inizio di un mio taccuino, la poesia ricopiata a mano che comincia così: “ I poeti sono soli, /col loro inverno / le scarpe bianche per uscire la domenica / le ali stropicciate …” 
Mi piace ricordarla tra quelle ricevute in anteprima dalla voce di Enrica al telefono o, in altri tempi, per lettera. In confidenza e corrispondenza d’amore per la poesia, sussurrato nelle dediche e vissuto da vicino e da lontano, fedele anche nei silenzi. 

E questo mi dà gioia ora sfogliando il quaderno n. 1 di UT nella veste damascata della sua bella copertina, bianca e nera come le rondini, come i poeti che sono i loro compagni migranti. Sì, fui colpita in quella poesia dal dettaglio di un candore-ricordo delle nostre infanzie, che balena anche qui, fin dall’ esergo di Holderlin, i cui versi additano lo spirito dei cercatori di consistenza e memoria, sempre in bilico “di terra in terra cercando un’estate lontana”.
Rientro nel mondo di UT attraverso il canto libero di Enrica, unendo anello ad anello, facendone ghirlanda e corona, immagini anche a lei care, parole femminili dalle molte suggestioni, figure di armonia e unione – rose e spine, vita e morte, opposti raccolti nel grembo di un tutto. 

E’ bello che il florilegio si apra con una poesia sulla madre, ricordata pensando al tema L’oblio: i contorni subito si sfaldano vestendo i colori delle alghe e le iridescenze dell’acqua, trasmutandosi nell’immaginario di una figlia che poeticamente abita il mondo, e si rivolge a lei come al suo  “pruno argenteo, / figura senza il tempo”… una forma di giorni, di brine / che tu disfi / perdendo / la memoria / nella stagione / del mio respiro”.
L’alfabeto della poesia è questa continua traduzione del vissuto, questa ricerca di una coincidenza di suono e senso per dire l’enigma di una voce che parla dalle profondità dell’animo umano, dove riposano le grandi universali figure degli archetipi e dei simboli. Dove gli opposti non si elidono ma si completano, dove le soglie sono orli di svelamenti e lo scorrere del tempo è vitale e infinita scoperta. Il microcosmo di un borgo “piccolo come una mano, / grande come un cappello parasole” rispecchia un intero mondo in cui le parole sono palme, sono nuvole e onde, scie e sassi, sabbia e silenzio. 
Tutti gli esseri appaiono sull’orlo di parole, compresi gli oggetti tirati fuori un giorno per caso dai cassetti della dimenticanza. Ritorniamo al filo rosso dei temi di UT, Il caso, per esempio, emblematico tessitore di coincidenze. Per me ci fu l’intento di dare voce in una piccola ballata a una statuina di terracotta che mi portavo dietro da un viaggio dei vent’anni (e con infantile gratitudine ringraziai UT di questo “battesimo”); per Enrica riaffiorò il vecchio kimono acquistato al mercato di Ercolano: “… questa piccola fortuna / trovata che avevo vent’anni / e tornata qui ed ora / che è quasi carnevale”. E un’altra volta: “la collana di vetro ripescata / rotta nella chiusura / pasticciata / indossata una sera / color di caramella / ricordo di un’amica / da non vedere più. / Un dono estivo, di bancarella”. (L’indiscrezione), affioramento un poco simile alla veste comprata dai cinesi: “Era bella e sottile, piccolo sogno di campana. / Giovinezza in transito per strade di sole.” (La fragilità). 
Gli oggetti diventano anch’essi paesaggi d’anima, impregnati come sono di noi, delle nostre storie e di quelle dei paesi lontani del sogno e della carta geografica. Il talento di un poeta si rivela magicamente fin dall’infanzia, ha la necessità che il cuore rimanga bambino, e qui il mistero è affidato a un tenerissimo ricordo che risuona nel dialetto del paese natale, Monsampolo del Tronto, nella poesia intitolata “Da frchina”, in cui la bambina sente per la prima volta le corde “parlare” uscendo dalla pancia di legno di una chitarra, “cuoricino mio sprofondato!”
Il poemetto della neve nasce dalle acque tumultuose e debordanti di un sogno, specchiandosi nell’amore di mandorla amara per la sorella Marisa alla quale è dedicato. Il medium fra sé e l’altra è la neve, presenza polisemica oscillante tra fantasia e pietas, tra stupore e gelo, ricordi sepolti e desiderio infinito di parole che possano ammantare, esprimere la bellezza di ogni dettaglio, sciogliere nodi e aprire a un’altra riva del mondo. E’una poesia di metamorfosi e anelito alla trasparenza, un monologo interiore che, nell’impossibilità di un dialogo vero, ricostruisce il rapporto donando generosamente l’intimità del suo sentire cosmico e musicale. A chi? Questo il poeta non lo sa, ma è fiducioso che a qualcuno la sua parola possa arrivare.

“Ho sognato a volte i fiordi
scesi in un mio nome straniero
nel mio nome che viene da lontano.
Ma tu non puoi vedere, sei tutta nel mio racconto
sono un minuscolo aedo, ho la voce più chiara.

Mutano
Le mie fattezze, perché la neve
va sciogliendomi il viso, mi cambia
in una delle sue facce
di calce tenue, un impasto
che serra e che apre
a un’altra riva del mondo”.

“Credo che nello spazio si librino tante domande disperate, inevase, oscillanti dagli uni agli altri e che, se ciascuno – a suo modo e secondo le proprie capacità – cominciasse ad affrancarle da quella disperata ricerca, fornendo loro una risposta, una dimora, non ci sarebbe una tale terribile messe di domande senza un tetto. E non c’è legislazione sociale che possa rimediare  a questa loro condizione di senzatetto”. Leggo questo passo nel Diario di Etty Hillesum (Adelphi 2012), mentre sosto tra i versi di Enrica Loggi e mi viene spontaneo concludere con questa citazione, perché sono convinta che essa si addica al suo modo di accogliere la molteplicità delle voci che salgono a noi dall’invisibile, riscattandole dalla condizione di senzatetto e dando ad esse nascita e dimora nell’interrogazione ininterrotta in cui consiste ogni autentica poesia.

Maria Grazia Maiorino