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19/12/12


Ai piedi della montagna
di verde e di neve
il cielo è una vertigine
che chiude le tue labbra.
Il bosco
che fa danzare il fiume
un sogno che ricordi.
Non ci sono vie di terra
ma sentieri fra alberi
fitti come vene al cuore.
Sei fuggito
dal magma dei grandi borghi
per conoscerti spoglio
come un cielo.
Spinoso
fiore di cardo
nella terra più antica
doni all'aria
il tuo colore innocente.

( E.L. )


31/10/12

"...A una rima di vento" : Le note critiche di Giarmando Dimarti


Dall'incontro alla Galleria Opus di Grottammare, il 27 ottobre:


[...] Farsi natura: in ciò consiste la testimonianza profonda di questi versi. O meglio: farsi natura inerme, senza il suo apparato di splendore e di bellezza e proclamare egualmente la sua ragione di vita in tutto ciò che si è perso, in tutto ciò che è caduco. Non siamo di fronte alla lamentazione de Le feuilles mortes di Jacques Prévert, del disvestimento fogliare come tensione di morte o di nostalgia,  ma siamo piuttosto di fronte alla ruralità pura di Pablo Neruda delle Odi elementari depurate di ogni sentore di “volontà di incanto”. Qui si cammina tra radici e slanci, tra il tutto ed il niente, tra l’ordine e l’infinito, e l’esistere è un riverbero minimale su frantumazioni ed elemosine. Enrica vuol proclamare, dalla sua misura onesta e riservata, concretamente vissuta, tutto l’entusiasmo creaturale di chi si sente partecipe, più che panicamente, possiamo dire virgilianamente, – si sente con forza palpitare infatti quella tensione classicista pre-cristiana come attesa di una rivelazione nuova, inconosciuta – di una natura che è condizione fondamentale dell’uomo. Da essa l’uomo ritrova il frammento cosmologico che lo ha prodotto per farlo sentire universo insieme agli altri, nonostante l’indifferenza degli altri. In questa marginalità c’è l’abisso dell’umano che si colma nella consapevolezza di essere e di “risplendere” anche di luce riflessa. In questa saggezza risiede il culmine teorico di tale poetica. [...]

[...] In questa poetica della mediocritas, cioè mediana, lontana da ogni estremo sensazionale e sentimentale, troviamo tra i diversi topoi come: l’albero, il mare, la città, la natura, la luce, il buio, quello delle stagioni. Noi ci aspetteremmo che in una tonalità pacata, che mantiene però sempre la sua vivezza, le stagioni che meglio rappresentano questo status fossero la primavera e l’autunno: le stagioni di passaggio, per intenderci, nella nomenclatura poetica ufficiale (anche se siamo in presenza di forti cambiamenti). Invece, a sorpresa, a prevalere sono le stagioni apicali del caldo e del freddo: l’estate e l’inverno. E con una dimidiazione quasi esemplare: è l’estate a prevalere nella prima parte, come pensamento e sorpresa (l’estate padrona di me, p. 25; la stagione che incede e che ci ingombra, p. 27), come insofferenza ( le mattine / dal traffico violento, p. 31), come estenuazione dell’esistere ( e l’estate cammina sugli asfalti bagnati / abdica dal paese col suo vecchio fuoco, p. 32).
Nella seconda parte trionfa l’inverno quasi come stagione esclusiva, traghettato, talvolta, da un autunno veloce, trascoloro, vibrante di voci cangianti, bisbigliate appena. Si respira nei versi di questa sezione una atmosfera vivaldiana, soprattutto un senso forte di raccoglimento come è prodotto dal secondo tempo dell’opera musicale omonima: il Largo, e in certi passaggi misurati dell’Allegro non molto (primo tempo) e all’Allegro (terzo tempo). È il tempo sopravvenuto della sospensione, dell’accestire nascosto, della vita altra che pulsa segreta sotto l’apparente mortificazione, sotto una uniformità che non si traduce in omologazione. È il momento dell’appartenenza intima, dove tutto si rigenera in un trionfo nascosto e duraturo. C’è bisogno, sembra dirci Enrica, semplicemente di ritrovare la nostra, ormai sempre più distratta se non usurpata, umana normalità, la nostra terrestrità costitutiva, la nostra esatta sussidiarietà. Così il baccello con i quattro semi quasi insignificanti, sottratto di proposito dall’albero ormai letargico (p.76), può essere segno pregnante di una possibile vita se ci si lascia guidare da quel senso di appartenenza humatico, precedentemente accertato, e fare un gesto semplice, per non dire ovvio: prendere i semi e metterli sotto terra (Erano solo quatto semi / in uno spicchio di terra, nel mondo, p.77). Qui si rivela l’intensità e la profondità del sentire: ogni vita vale anche nel suo assoluto anonimato, anche nella sua disarmata e disarmante probabilità. Questo vivido inverno sotterraneo allora, con cui il sentire poiematico si fonde e si rinnova, diventa la scoperta nuova, la nuova conoscenza, che interferisce e sopravanza ogni superficiale incongruenza, ogni incertezza sentita o agita, tanto da far dire al poeta in uno dei versi finali: So tutto di queste ore gelate… (p.79). E proprio in chiusura, quasi a riaffermare il proprio totale coinvolgimento, si legge, in una perentorietà epigrafica: Io sono qui, / tra il sole e la neve (p. 80).



12/09/12



Settembre passa, il cielo inarca i raggi,
raggio d’inverno passa e tocca l’ombra
incrocia lunghe strade d’atmosfera
ferme a punti di luce-luminarie.

Nel sorriso-baleno pianto d’erbe
gemito della terra, storia
che si recita in alto, sopra il mondo.


( Enrica Loggi, da "... A una rima di vento", Polistampa, 2012 )

03/08/12


Poesia per l'estate


Tu vivi con me,
gabbia della luce
esploso paradiso.
Ti porto sulle spalle
come una gerla
tu capriccio d'azzurro
onda che sfianca.
Sono con te in questa cavità
di paniere intrecciato con le mani
sei come il seno delle madri
il colore del pane.


( E. L.)

21/05/12




Ancora maggio, a dispetto delle rose

di color giallo pallido rigato

di rosso, una giornata come un’altra

sospesa al filo della storia

tessuto dai vivi e dai morti dipanato

sugli articoli del giornale

povero pianto di patria, nei cortili

narrato a bassa voce, mentre infuria

la ragione che uccide. Ho pianto

per chi si perde nelle macchie del cuore

per chi è solo a riconoscere

il dolore senza madri, la ferita

esposta al sole rovente, al lutto

che si veste di maggio e primavera.


( E.L. )

11/04/12

Dedicato a Rita Vitali Rosati

Ahi! Come per una puntura di spillo: è l’ironia di Rita. Il titolo del racconto fotografico maschera un’esclamazione indicibile. Sono i flashes del dramma quotidiano che viviamo tra quattro mura, schiacciati dalla solitudine dei nostri giorni che si consuma tra le pareti domestiche, dove le immagini della televisione recitano per noi quotidianamente la catechesi dell’inesorabile. La nostra esistenza viene così simbolicamente esposta allo spettacolo senza repliche delle ferite, del sangue, della morte. Immagini che passano indisturbate, come in un Acheronte che le confonde a quelle degli show televisivi, cantanti accanto a poeti, divi del piccolo schermo, nello stesso magma.
La visione dell’Artista sta nel “gesto” di riprodurre, di sottrarre alla routine mediatica un volto, e così consacrarlo all’attenzione, alla passione, alla compassione, all’orrore di chi guarda. Sembra un gesto da nulla, consumato in una bella casa, in uno dei tanti giorni che attraversiamo tra memoria e oblio. E invece è un gesto di grande portata umana. E ci accorgiamo, davanti alle immagini di questo libro, che il nostro sguardo può trasformarsi nell’”amen” di un commento estremo. L’Artista non ha sopportato il continuum di immagini d’assalto quotidiane, e ha sentito il bisogno di fermarle, di allacciarle al suo click, per raccontarcele come fossero un abicì, un “memento”, affidato alle pagine di un libro dove prendono corpo contrappuntandosi il dramma individuale della Fotografa e quello sociale.
Nella bella casa l’Artista fotografa se stessa ripetutamente, sfumando l’immagine fino a una definizione informale, e più volte presta il suo volto sfacendolo in una vertigine di pose lancinanti. Dunque la mostruosità degli eventi passati per lo schermo ha invaso la vita, l’equilibrio di un’esistenza, per cui le immagini di Rita sono emblematiche di ciascuno di noi, fatto oggetto innocente di una sequela di barbarie, come quella alluvionale degli schermi e della stampa.
Non c’è scampo: le stesse immagini-spettacolo riprese dal video fanno parte della sarabanda quotidiana, indifferenziate, date in pasto per riempire i vuoti di un’esistenza senza più volto, senza più ascolto, assediata nel suo diritto alla speranza.
Notevole l’invenzione fotografica per cui tutto si compie dentro le pareti di un appartamento, che magari ha conosciuto giornate di affetti, di familiarità, di scambio umano: tutto, e quasi all’improvviso, contro ogni ragione. Il volto di Rita è immerso in un agone, perde le sue linee, diventa una fiamma che trasvola nell’aria. E le pagine ci svelano una ad una, con la pazienza di una pietà anch’essa venata d’ironia, che siamo comunque spettatori, e intorno a noi non c’e che il vuoto di un’inappartenenza che ci consegna a un ruolo impotente.
Narrare tutto questo è un gesto che, riproponendocela paradossalmente, smentisce la cronaca per raccomandarla pagina per pagina a lembi di pietà umana. Il racconto è una specie di estrema ironia nei confronti della pigrizia morale che c’inchioda, apparentemente affrancandoci da debiti d’umanità, e in realtà sottolineando una responsabilità che abbiamo dismessa.
"Ahi " è un’opera-ritratto dell’assurdo quotidiano, e in questa pagina continua l’Artista ha saputo cogliere persino un dato estremo che è quello della vita che abbandonandosi e abbandonandoci, lascia sui nostri selciati frammenti di bellezza, indimenticabili, piccoli e grandi “fleurs du mal”.

Enrica Loggi

05/04/12

Dedicato a Stefano Taffoni


Disteso microcosmo

Nel silenzio di un pomeriggio ho trovato alla sala da tè più antica di San Benedetto, nel cuore del quadrilatero disegnato dalle stradine del centro, e in un altro cuore che è il perimetro quadrangolare della sala stessa, composta tra tavoli liberty e luci soffuse, l’arte di Stefano Taffoni affidata a quadri fotografici disposti alle pareti. La natura delle immagini in mostra era in armonia con l’atmosfera della sala, con le musiche che si susseguivano a sfumare il silenzio di un’ora precedente l’afflusso dei frequentatori, e i quadri si facevano cercare, più che mostrarsi o imporsi, per i colori discreti e per la loro natura figurale così vicina al tono di quell’ora.Superfici dai colori insoliti, che velavano il proprio significato nel modo di disporsi delle immagini,ottenute in maniera tecnicamente inedita, ricavate da un’osservazione millimetrale di particolari materici.La forza di queste immagini sta nell’aver proiettato l’estremamente piccolo, lo scarto, su grande scala , con un atteggiamento rabdomantico, per cui il Fotografo diventa quasi un evocatore di forme, di sigle pittoriche, in una gestalt di estremo gusto, dove ritroviamo quasi la felicità di una scoperta scientifica. La materia ha mille volti, può mostrarsi azzurra, rossa, gaiettata, e l’immagine felice di essa è un luogo ritrovato, la sostanza di una visione, la sua alchimia. In un cammino all’inverso, i cieli, i paesaggi astrali, le forme pittoriche di Stefano erano semplici lamiere. L’occhio fotografico si è inoltrato in un’apparente non-significanza (il silenzio della materia) per rivelare la presenza, in essa, di un potenziale visionario senza limiti. Escono così dall’obiettivo costellazioni, paesaggi informali dove l’immaginazione può liberamente avventurarsi, entrare nel terreno di un’autentica meditazione , e riposare nel suo mistero come in un altro sguardo, esplorarne la cifra della meraviglia.Ho a lungo interrogato le superfici del disteso microcosmo con cui Stefano, da un silenzio quasi astrale, si offre alla nostra capacità di meditare, e ne è derivato un incontro, un arcano richiamo a ritrovarsi in una pace diversa, lontana da qualsiasi clamore, sul terreno di un fervido e multilingue enigma che non s’impone, ma si scioglie con garbo rimandando alla pittura , a un’astrazione che disinteressatamente ci propone un cammino, una ricerca dell’altrove, un affascinante punto di fuga.

Enrica Loggi

26/03/12



Primavera, garrisci e ti fai muta
sotto gli ulivi in fiori bianchi a crocchi


14/02/12


Risveglio con la neve che fa acqua
nel paese di sole, specchio ustorio
bianco di perla sopra i campi.
La gioia di chi vive è neve
densa fioccata parvenza
dono ignaro del cielo, da una nube
fitta sul mare ne è venuta l'anima.
Come un fantasma assopito
danza fino alle onde
all'acqua fa un inchino, e tace.


(E.L.)